giovedì 30 aprile 2009

il senso del mondo

Pietro Citati, La malattia dell'infinito, Mondadori 2008

Sfoglialibro Mondadori: capitolo primo (su Conrad)



Walser e il giovane Kafka avevano una sola passione in comune: amavano Charles Dickens. Appresero da lui che l’ilarità, l’euforia, la lieve, trasognata ubriachezza sono la chiave migliore per scoprire il senso di questo e dell’altro mondo, che si insinua nel nostro (sovente in un’osteria suburbana o in un tram sfavillante), senza che noi sappiamo riconoscerlo.

martedì 28 aprile 2009

Oblivion

Qui sotto il link al video degli Oblivion:


OBLIVION, LA STAZIONE DI BOLOGNA

****************


Oh quei fanali come s'inseguono
accidiosi là dietro gli alberi,
tra i rami stillanti di pioggia
sbadigliando la luce su 'l fango!
Flebile, acuta, stridula fischia
la vaporiera da presso. Plumbeo
il cielo e il mattino d'autunno
come un grande fantasma n'è intorno.

(...)
Giosuè Carducci, Alla stazione in un mattino d'autunno
s

venerdì 24 aprile 2009

Caproni, le parole

Giorgio Caproni, Il quadrato della verità (1947) in La scatola nera, a cura di Giovanni Raboni, Milano, Garzanti, 1996, pp. 19-20

"la forma più alta e libera del linguaggio (la poesia) è una realtà distinta dalla natura – una vera e propria altra realtà che pur essendo indotta da quella originale (o meglio originaria) è destinata a rimanere parallela ad essa – a non collimare mai, nemmeno un punto del linguaggio (una parola), con un solo punto della natura (una cosa). […] Un fatto che si può perfino sperimentare, e proprio in corpore di quella che è comunemente ritenuta la forma più aderente di letteratura: quella descrittiva, ch’è invece la più impossibile delle forme letterarie possibili".

Le parole.


Le parole. Già..

Dissolvono l’oggetto.

Come la nebbia gli alberi,

il fiume: il traghetto



Giorgio Caproni, Tutte le poesie, Milano, Garzanti1999


giovedì 23 aprile 2009

Fernando Bandini

Fernando Bandini, Dietro i cancelli e altrove, Garzanti 2007

Nessuna parola


Così abbagliante ormai
la distesa di neve che la retina non ce la fa.
Tutto è silenzio dopo la schianto dei rami,
nessuna parola aveva colto nel segno.

Amnesia

Giorno per giorno qualche nome si eclissa
dalla mia lingua e dalla mia memoria,
usuali parole come sedia bottiglia
Oh, trafelate corse per riprenderne
possesso! Annaspo naufrago
in un mondo che sempre più smarrisce
i suoi eoni, balbetto
come Mosè presso il roveto ardente.

E con nervoso tremito pronuncio
casa farfalla mela
per esorcizzare la buia notte
che si avanza a grandi passi;
ma poi casa precipita, farfalla
si polverizza in porpora,
mela mi è tolta divorata dal verme
che abita il mio cervello.

Come mi muoverò, poeta senza
gli amati nomi succo delle cose,
tra i buchi d’un saccheggiato universo?

BANDINI a Pordenone legge


BANDINI su radio tre

mercoledì 22 aprile 2009

Nietzsche, Filologia

Friedrich Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, Rizzoli, 1998


Fa anche parte del mio gusto non scrivere più nulla che non porti alla disperazione ogni genere di gente "frettolosa". Filologia, infatti, è quella onorevole arte che esige dal suo cultore essenzialmente una cosa, trarsi da parte, lasciarsi tempo, diventare silenzioso, lento, essendo questa un'arte e una perizia di orafi della parola, che deve compiere un finissimo attento lavoro e non raggiunge nulla se non lo raggiunge lento. Ma proprio per questo fatto è oggi più necessaria che mai. E' proprio per questo mezzo che essa ci attira e ci incanta quanto mai fortemente, nel cuore di un'epoca del "lavoro", intendo dire della fretta, della precipitazione indecorosa e sudaticcia, che vuol dire "sbrigare" immediatamente ogni cosa, anche ogni libro antico e nuovo: per una tale arte non è tanto facile sbrigare una qualsiasi cosa, essa insegna a leggere bene, cioè a leggere lentamente, in profondità, guardandosi avanti e indietro, non senza secondi fini lasciando porte aperte.

sabato 18 aprile 2009

Anedda, Residenze invernali

Antonella Anedda, Residenze invernali, Crocetti 2008

Ci sarà un incubo peggiore
socchiuso tra i fogli dei giorni
non sbatterà nessuna porta
e i chiodi
piantati all’inizio della vita
si piegheranno appena.
Ci sarà un assassino disteso sul ballatoio
il viso tra le lenzuola, l’arma posata di lato.
Lentamente si schiuderà la cucina
senza fragore di vetri infranti, nel silenzio del pomeriggio invernale.
Non sarà l’amarezza, né il rancore, solo
per un attimo le stoviglie
si faranno immense di splendore marino.
Allora occorrerà avvicinarsi, forse salire
là dove il futuro si restringe
alla mensola fitta di vasi
all’aria rovesciata del cortile
al volo senza slargo dell’oca,
con la malinconia del pattinatore notturno che a un tratto conosce
il verso del corpo e del ghiaccio
voltarsi appena,
andare.

sabato 4 aprile 2009

Perec, un uomo che dorme

George Perec, Un uomo che dorme, Quodlibet 2009

Si fa notte. Sfreccia raramente qualche automobile. La goccia d'acqua stilla dal rubinetto nel pianerottolo. Il tuo vicino è silenzioso, forse assente, oppure già morto. Sei disteso sulla panca tutto vestito, le mani incrociate dietro la nuca e le ginocchia sollevate. Chiudi gli occhi, li apri. All'interno dell'occhio, o sulla superficie della cornea, forme virali, microbiche, scarrocciano dall'alto in basso, spariscono, e ritornano repentinamente al centro leggermente modificate: sembrano dischi, bolle, pagliuzze, filamenti ritorti il cui assemblaggio disegna i vaghi tratti di un animale mitologico. Ne perdi le tracce, li ritrovi; ti sfreghi gli occhi e i filamenti esplodono, moltiplicandosi.

Lungo il corso delle ore, dei giorni, delle settimane e delle stagioni ti disamori di tutto, ti distacchi da tutto. (...)
Sei invisibile, limpido, trasparente. Non esisti più: il susseguirsi delle ore, il susseguirsi dei giorni, il passare delle stagioni, lo scorrere del tempo, sopravvivi, senza allegria e senza tristezza, senza futuro e senza passato, così, semplicemente, in modo evidente, come una goccia d'acqua che stilla da un acquaio su un pianerottolo, come sei calze in ammollo dentro una bacinella di plastica rosa, come una mosca, come un'ostrica, come una mucca, come una lumaca, come un bambino o come un vecchio, come un topo.

venerdì 3 aprile 2009

La Tempesta

W. Shakespeare, La Tempesta, ... III.2

Be ne afeard; the isle is full of noises, / Sounds, and sweet airs, that give delight, and hurt not. / Sometimes a thousand twangling instruments / Will hum about mine ears; and sometimes voices / That, if I then had wak'd after a long sleep, / Will make me sleep again: and then, in dreaming, / The clouds methought would open, and show riches/ Ready to drop upon me; that, when I wak'd, / I cried to dream again.

Non aver paura. L'isola è piana di canti, di suoni e di dolci melodie che dilettano e non fanno male. Qualche volta mi ronzano nelle orecchie migliaia di strumenti pizzicati, e qualche volta delle voci, che, se anche mi sono allora svegliato da un lungo sonno, mi fanno addormentare di nuovo. Allora nel sogno mi pare che le nubi si aprano e mi mostrino dei tesori pronti a rovesciarsi su di me, in maniera che, quando mi sveglio, piango per voler sognare di nuovo.

O tempo,


Leonardo da Vinci, Scritti letterari, 1952, p.184

O tempo, veloce predatore delle create cose, quanti re, quanti popoli tu hai disfatti, e quante mutazioni di stati e vari casi sono seguiti, po' che la meravigliosa forma di questo pesce qui morì. Per le cavernose e ritorte interiora [...] ora disfatto dal tempo paziente giaci in questo chiuso loco. Colle ispogliate, spolpate e ignude ossa hai fatto armadura e sostegno al sopraposto monte."

Tiziano Scarpa, Tempo

Tiziano Scarpa, Tempo, in Il primo amore

Mi chino ad allacciarmi una scarpa, arriva una bambina piuttosto piccola: "Che cosa stai facendo?" Glielo spiego. "E tu?", le domando. "Io…", la bambina si volta e corre via, proseguendo la frase con il movimento. Ripenso a Eraclito, quando diceva che aiòn pàis esti paìzon. Gli studiosi traducono che il tempo è "un bambino che gioca", o addirittura "fanciullo nel trastullo". Pochi notano che pàis paìzon è quasi un bisticcio di parole, è un nome seguito dalla sua verbificazione, è il passaggio all'atto del nome che trabocca in verbo: "un bambino bambinante, un bambino che bambina". Il tempo è un essere che si esegue: la sua azione consiste nell'essere fattivamente sé stesso. Il tempo è un bambino che fa il bambino. La bambina che ho incontrato io è un essere che inserisce nel linguaggio sé stessa e la propria azione, non separa essere, fare e dire. Nel frattempo io, da consumato vivisezionatore, ho allacciato la mia scarpa, mi sono visto farlo, e l'ho detto.

23.11.07 -
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