Giacomo Leopardi, Elogio degli uccelli, in Operette morali, Milano, Feltrinelli, 1992 (introd. Antonio Prete)
Sono gli uccelli naturalmente le più liete creature del mondo. Non dico ciò in quanto se tu li vedi o gli odi, sempre ti rallegrano; ma intendo di essi medesimi in sé, volendo dire che sentono giocondità e letizia più che alcuno altro animale.
(...) Per ogni diletto e ogni contentezza che hanno, cantano; e quanto è maggiore il diletto o la contentezza, tanto più lena e più studio pongono nel cantare. E cantando buona parte del tempo, s'inferisce che ordinariamente stanno di buona voglia e godono (... ) Imperocché si vede palesemente che al dì sereno e placido, cantano più che all'oscuro e inquieto: e nella tempesta si tacciono, come anche fanno in ciascuno altro timore che provano; e passata quella, tornano fuori cantando e giocolando gli uni cogli altri.
(...) Onde si potrebbe dire in qualche modo, che gli uccelli partecipano del privilegio che ha l'uomo di ridere: il quale non hanno gli altri animali.
(...) s'inferisce che debbono avere una grandissima forza e vivacità, e un grandissimo uso d'immaginativa. Non di quella immaginativa profonda, fervida e tempestosa, come ebbero Dante, il Tasso; la quale è funestissima dote, e principio di sollecitudini e angosce gravissime e perpetue; ma di quella ricca, varia, leggera, instabile e fanciullesca; la quale si è larghissima fonte di pensieri ameni e lieti, di errori dolci, di vari diletti e conforti; e il maggiore e più fruttuoso dono di cui la natura sia cortese ad anime vive. (...)
In fine, siccome Anacreonte desiderava potersi trasformare in ispecchio per esser mirato continuamente da quella che egli amava, o in gonnellino per coprirla, o in unguento per ungerla, o in acqua per lavarla, o in fascia, che ella se lo stringesse al seno, o in perla da portare al collo, o in calzare, che almeno ella lo premesse col piede; similmente io vorrei, per un poco di tempo, essere convertito in uccello, per provare quella contentezza e letizia della loro vita.
(...) s'inferisce che debbono avere una grandissima forza e vivacità, e un grandissimo uso d'immaginativa. Non di quella immaginativa profonda, fervida e tempestosa, come ebbero Dante, il Tasso; la quale è funestissima dote, e principio di sollecitudini e angosce gravissime e perpetue; ma di quella ricca, varia, leggera, instabile e fanciullesca; la quale si è larghissima fonte di pensieri ameni e lieti, di errori dolci, di vari diletti e conforti; e il maggiore e più fruttuoso dono di cui la natura sia cortese ad anime vive. (...)
In fine, siccome Anacreonte desiderava potersi trasformare in ispecchio per esser mirato continuamente da quella che egli amava, o in gonnellino per coprirla, o in unguento per ungerla, o in acqua per lavarla, o in fascia, che ella se lo stringesse al seno, o in perla da portare al collo, o in calzare, che almeno ella lo premesse col piede; similmente io vorrei, per un poco di tempo, essere convertito in uccello, per provare quella contentezza e letizia della loro vita.