mercoledì 31 ottobre 2007

Franco Fortini, Dare forma all'esistenza

Franco Fortini, Dare forma all'esistenza, in Un giorno o l'altro, Quodlibet, Macerata, 2006


Dare forma alla esistenza significa assumere quel potere sulla materia vitale che è pedagogia quindi educazione, direzione, finalità. Nelle società di classe quel potere è privilegio: lo si possiede nella misura in cui altri ne è spossessato. Sapere che cosa si farà domani, volere un adempimento, esercitare le virtù dianoetiche, progettare, scegliersi il lavoro, la causa, la morte: tutto questo è nella storia ottenuto mediante la distruzione anzi la dissoluzione delle forme che la classe dominata si tramandava come sua cultura. Le culture subalterne sono colpite di inessenzialità e divengono derisorie anzitutto ai margini, sulle frange contigue alle forme e ai valori delle classi superiori. L'uomo subalterno è un colonizzato, vive fra le ombre di forme inutili. Esiste senza limite; sarebbe una semplice intenzione se non si portasse i residui delle forme morenti e se – soprattutto – quei residui, «rigenerati», non gli venissero continuamente proposti dalla classe dirigente. Naturalmente la forma del privilegio è autentica in quanto è del privilegio mentre è inautentica in quanto può essere solo per sottrazione di autenticità ad altri, per reificazione degli altri. La sostanza umana degli altri diventa la materia prima della vita privilegiata. La necessità non diventa coscienza, i progetti impossibili, la passività lasciano come colare una lava di esistenza con cui il privilegiato risparmia la propria. Nella società contemporanea, il partecipe del privilegio nuota, alla lettera, nella semenza umana e se ne ricava le forme, i modelli...

domenica 28 ottobre 2007

Cascando




2
nuovamente dicendo
se non m'insegni non imparerò
nuovamente dicendo ecco vi è un'ultima
volta persino per le ultime volte
ultime volte per mendicare
ultime volte per amare
per sapere di non sapere fingere
un'ultima anche per le ultime volte
di dire se non m'ami
non sarò amato se non amo te
non amerò

Samuel Beckett, Le poesie, Torino, Einaudi, 1999, a cura di G. Frasca

venerdì 26 ottobre 2007

lettera di marina cvetaeva a rilke

L’anno finisce con la tua morte? fine? inizio! sei tu a te stesso l’anno più nuovo. (caro, lo so, tu mi stai leggendo ancora prima che io scriva). rainer, ecco, sto piangendo, sei tu che mi sgorghi dagli occhi.
caro, se tu sei morto – vuol dire che non esiste nessuna morte (o nessuna vita!). non voglio rileggere le tue lettere, altrimenti mi verrà voglia di raggiungerti, di venire là – e non oso volerlo: tu sai bene che cosa è legato a questo “volere”.
rainer, ti sento immancabilmente dietro la mia spalla destra.
hai mai pensato a me? – sì, sì, sì –.
domani è l’anno nuovo, rainer – il 1927. ...come sono infelice.
ma non devo affliggermi! stanotte, a mezzanotte, brinderò con te. (tu sai come, colpirò il tuo bicchiere piano piano!).
Caro, fai in modo che io ti sogni spesso – anzi, no, non è giusto: vivi nel mio sogno. adesso hai il diritto di desiderare e di fare.
Io e te non abbiamo mai creduto nel nostro incontro qui sulla terra – come non abbiamo mai creduto in questa vita, non è vero? Tu mi hai preceduto (è stato più bello!) e per accogliermi bene mi hai prenotato non una stanza, non una casa, ma un intero paesaggio. ti bacio sulle labbra? sulle tempie? sulla fronte? naturalmente – sulle labbra, veramente, come un vivo.
caro, amami più forte e diversamente da tutto. non arrabbiarti – ti devi abituare a me, a come sono. cosa, ancora?
non è vero: non sei ancora in alto e lontano, sei proprio qui accanto, la fronte sulla mia spalla. non sarai mai lontano: l’irraggiungibile non è mai alto.
sei il mio caro ragazzo adulto.
rainer, scrivimi! (e’ abbastanza stupida la mia richiesta, vero?).
ti auguro buon anno e uno splendido paesaggio celeste!
marina
Bellevue, 31 dicembre 1926, 10 di sera

rainer. sei ancora sulla terra. non è ancora passato un giorno intero.


marina cvetaeva,lettera di marina cvetaeva a r.m. rilke, in il settimo sogno, trad. serena vitale, roma, editori riuniti, 1980.

domenica 21 ottobre 2007

Ripellino, Vivere è stare svegli

Angelo Maria Ripellino, Vivere è stare svegli, Non un giorno ma adesso, in Poesie prime e ultime, Torino, Aragno, 2006


Vivere è stare svegli
e concedersi agli altri,
dare di sè sempre il meglio
e non essere scaltri.

Vivere è amare la vita
coi suoi funerali e i suoi balli
trovare favole e miti
nelle vicende più squallide.

Vivere è attendere il sole
nei giorni di nera tempesta
schivare le gonfie parole
vestire con frange di festa.

Vivere è scegliere le umili
melodie senza strepiti e spari,
scendere verso l'autunno
e non stancarsi di amare.

mercoledì 17 ottobre 2007

Ferruccio Benzoni, Dopo l'ira

Ferruccio Benzoni, Dopo l’ira, in Numi di un lessico figliale, Venezia, Marsilio, 1995.

La luce del sole alla finestra.
Un piancito di scaglie di mare che s’apriva
dopo un volo bocconi...
Au ralenti non finiva mai
non finiva mai quel tuffo
passato e ripassato nella mente,
coccolato, covato; implume.
Hai un bel dire cammina
(alla malora le giunture!)
- sforzati tra la folla che infestava
viva appestava cunicoli
di sedimentazione e delirio.
Ma come si fa - dimmi - a zoppicare
dopo gli angeli, barattare
una larva di sole alla finestra
con le gemme che spurgano dai rami
il fiato del fieno fradicio
- e quei vetri marezzati
solo ieri composti in un amoroso gelo.

venerdì 12 ottobre 2007

Antonio Tabucchi, Lettera di Calipso

Antonio Tabucchi, I volatili del Beato Angelico, Palermo, Sellerio 1997
Lettera di Calipso, ninfa, a Odisseo, re di Itaca

Violetti e turgidi come carni segrete sono i calici dei fiori di Ogigia; piogge leggere e brevi, tiepide, alimentano il verde lucido dei suoi boschi; nessun inverno intorbida le acque dei suoi ruscelli.
E’ trascorso un battere di palpebre dalla tua partenza che a te pare remota, e la tua voce, che dal mare mi dice addio, ferisce ancora il mio udito divino in questo mio invalicabile ora. Guardo ogni giorno il carro del sole che corre nel cielo e seguo il suo tragitto verso il tuo occidente; guardo le mie mani immutabili e bianche; con un ramo traccio un segno sulla sabbia – come la misura di un vano conteggio; e poi lo cancello. E i segni che ho tracciato e cancellato sono migliaia, identico è il gesto e identica è la sabbia, e io sono identica. E tutto.
Tu, invece, vivi nel mutamento. Le tue mani si sono fatte ossute, con le nocche sporgenti, le salde vene azzurre che le percorrevano sul dorso sono andate assomigliando ai cordoni nodosi della tua nave; e se un bambino gioca con esse, le corde azzurre sfuggono sotto la pelle e il bambino ride, e misura contro il tuo palmo la piccolezza della sua piccola mano. Allora tu lo scendi dalle ginocchia e lo posi per terra, perché ti ha colto un ricordo di anni lontani e un’ombra ti è passata sul viso: ma lui ti grida festoso attorno e tu subito lo riprendi e lo siedi sulla tavola di fronte a te;: qualcosa di fondo e di non dicibile accade e tu intuisci nella trasmissione della carne, la sostanza del tempo.
Ma di che sostanza è il tempo? E dove esso si forma, se tutto è stabilito, immutabile, unico? La notte guardo gli spazi fra le stelle, vedo il vuoto senza misura: e ciò che voi umani travolge e porta via, qui è un fisso momento privo di inizio e di fine.
Ah, Odisseo, poter sfuggire a questo verde perenne! Potere accompagnare le foglie che ingiallite cadono e vivere con esse il momento! Sapermi mortale. Invidio la tua vecchiezza, e la desidero: e questa è la forma d’amore che sento per te. E sogno un’altra me stessa, vecchia e canuta, e cadente; e sogno di sentire le forze che mi vengono meno, di sentirmi ogni giorno più vicina al Grande Circolo nel quale tutto rientra e gira; di disperdere gli atomi che formano questo corpo di donna che io chiamo Calipso. E invece resto qui, a fissare il mare che si distende si ritira, a sentirmi la sua immagine, a soffrire questa stanchezza di essere che mi strugge e che non sarà mai appagata – e il vacuo terrore dell’eterno.

venerdì 5 ottobre 2007

G. Bruno, Il candelaio: dedica

Giordano Bruno, Il candelaio, Torino, Einaudi, 1964


Alla signora Morgana B., sua signora sempre onoranda


Ed io a chi dedicarrò il mio Candelaio? a chi, o gran destino, ti piace ch'io intitoli il mio bel paranimfo, il mio bon corifeo? a chi inviarrò quel che dal sirio influsso celeste, in questi più cuocenti giorni, ed ore più lambiccanti, che dicon caniculari, mi han fatto piovere nel cervello le stelle fisse, le vaghe lucciole del firmamento mi han crivellato sopra, il decano de' dudici segni m'ha balestrato in capo, e ne l'orecchie interne m'han soffiato i sette lumi erranti?

(…)
A voi tocca, a voi si dona; e voi o l'attaccarrete al vostro cabinetto o la ficcarrete al vostro candeliero, in superlativo dotta, saggia, bella e generosa mia s[ignora] Morgana: voi, coltivatrice del campo dell'animo mio, che, dopo aver attrite le glebe della sua durezza e assottigliatogli il stile, — acciò che la polverosa nebbia sullevata dal vento della leggerezza non offendesse gli occhi di questo e quello, — con acqua divina, che dal fonte del vostro spirto deriva, m'abbeveraste l'intelletto.
(…)
Ricordatevi, Signora, di quel che credo non bisogna insegnarvi:

- Il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla s’annichila; è un solo che non può mutarsi, un solo è eterno, e può perseverare eternamente uno, simile e medesimo. - Con questa filosofia l’animo mi s’aggrandisse, e me se magnifica l’intelletto. Però qualunque sii il punto di questa sera ch’aspetto, si la mutazione è vera, io che son ne la notte, aspetto il giorno, e quei che son nel giorno, aspettano la notte: tutto quel ch’è, o è cqua o llà, o vicino o lungi, o adesso o poi,
o presto o tardi. Godete, dunque, e, si possete, state sana, ed amate chi v’ama.



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Eugenio Garin su Giordano Bruno:

http://www.antrodellasibilla.it/filosofia12_bruno.htm#BRUNO