domenica 29 aprile 2007

Il cielo sopra Berlino





Berlino è divisa come il nostro mondo,
è scissa come il nostro tempo,
è separata come lo sono uomini e donne,
giovani e anziani,
poveri e ricchi,
è frantumata come ciascuna nostra esperienza.
(Wim Wenders, Il cielo sopra Berlino, 1987)

venerdì 27 aprile 2007

I chiari del bosco

Maria Zambrano, Chiari del bosco, Milano: Bruno Mondadori, 2004, trad. C. Ferrucci

Il chiaro del bosco è un centro nel quale non sempre è possibile entrare; lo si osserva dal limite e la comparsa di alcune impronte di animali non aiuta a compiere tale passo. E' un altro regno che un'anima abita e custodisce. Qualche uccello richiama l'attenzione, invitando ad avanzare fin dove indica la sua voce. E le si dà ascolto. Poi non si incontra nulla, nulla che non sia un luogo intatto che sembra essersi aperto solo in quell'istante e che mai più si dirà così. Non bisogna cercarlo. Non bisogna cercare. E' la lezione immediata dei chiari del bosco: non bisogna andare a cercarli, e nemmeno a cercare nulla da loro. Nulla di determinato, di prefigurato, di risaputo. E l'analogia del chiaro con il tempio può sviare l'attenzione.
(...)
Il chiaro si mostra ora come specchio che trema, chiarezza palpitante che appena lascia comporsi qualcosa che insieme si scompone. E tutto allude, tutto è allusione e tutto è obliquo, la luce stessa che si manifesta come riflesso si dà obliquamente, ma non liscia come spada. Leggermente si curva la luce trascinando con sè il tempo.

giovedì 26 aprile 2007

Cristina Campo, L'attenzione

Cristina Campo, Attenzione e poesia, in Gli imperdonabili,
Milano: Adelphi 2002


“Soffrir pour quelque chose s’est lui avoir accordè une attention extréme” (così Omero soffre per i Troiani, contempla la morte di Ettore; così il maestro di spada giapponese non distingue tra la sua morte e quella del suo avversario) E avere accordato a qualcosa un’attenzione estrema è avere accettato di soffrirla fino alla fine, e non soltanto di soffrirla ma di soffrire per essa, di porsi come uno schermo tra essa e tutto quanto può minacciarla, in noi e al di fuori di noi. E’ avere assunto sopra a se stessi il peso di quelle oscure, incessanti minacce, che sono la condizione stessa della gioia.
Qui l’attenzione raggiunge forse la sua più pura forma, il suo nome più esatto: è la responsabilità, la capacità di rispondere per qualcosa o qualcuno, che nutre in misura uguale la poesia, l’intesa fra gli esseri, l’opposizione al male.
Perché veramente ogni errore umano, poetico, spirituale, non è, in essenza, se non disattenzione.
Chiedere a un uomo di non distrarsi mai, di sottrarre senza riposo all’equivoco dell’immaginazione, alla pigrizia dell’abitudine, all’ipnosi del costume, la sua facoltà di attenzione, è chiedergli di attuare la sua massima forma.
E’ chiedergli qualcosa di molto prossimo alla santità in un tempo che sembra perseguire soltanto, con cieca furia e agghiacciante successo, il divorzio totale della mente umana dalla propria facoltà di attenzione.

mercoledì 25 aprile 2007

Rilke, Quinta elegia

Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi,
Torino, Einaudi 1978, trad. it Enrico e Igea De Portu

Ma dimmi, chi sono , questi girovaghi, questi anche
un po’
più fuggitivi di noi, che fin da piccini
un volere sempre più scontento incalza e torce. Ma, per chi,
per amore di chi? li torce,
li piega, li intreccia, li lancia,
li butta, li acchiappa; come da un’aria oleata,
più liscia, piombano sul tappeto consunto,
liso dal loro eterno saltare, questo tappeto
perduto nell’Universo.
(…)

E a un tratto, in questo faticoso nessundove, a un tratto
l’indicibile punto, dove quel ch’era sempre troppo poco
Inconcepibilmente si trasmuta – , salta
In un troppo, vuoto.
Dove il conto a tante poste
Si chiude senza numeri.
(...)

Picasso, Parade


Il sipario dipinto da Picasso per il balletto "Parade" ,
libretto di Cocteau, musica di Satie, scene e costumi di Picasso, programma di sala di Apollinaire. 1917





Saltimbanchi

Jean Starobinski, Ritratto dell'artista da saltimbanco,
Torino, Bollati Boringhieri, 1984

Ogni vero clown vien fuori da un altro spazio, da un altro universo: il suo ingresso deve figurare un superamento dei confini del reale e, sia pure in un clima di assoluta bonomia, deve apparirci come uno spirito che torna. La porta attraverso cui egli penetra nell'arena non è meno fatidica della porta d'avorio di cui parla Virgilio, che i sogni ingannatori attraversavano provenendo dagli Inferi. La sua apparizione ha come fondale un abisso spalancato, dal quale si slancia su di noi. L'entrata del clown deve farci sentire quel "doloroso Nessun Luogo" evocato da Rilke, che è poi il luogo da cui il clown è partito, e che s'è ormai lasciato dietro le spalle. Per l'acrobata è assolutamente la stessa cosa: il "doloroso Nessun Luogo" gli sta sotto i piedi, e il passaggio si realizza davanti ai nostri occhi, nel momento del balzo, del salto pericoloso, dell'ostacolo superato.
(...)
In un mondo utilitaristico, attraversato dal reticolo fitto delle relazioni significanti, in un universo pratico nel quale ogni cosa viene investita d'una funzione e di un valore d'uso o di scambio, l'entrata del clown fa saltare alcune maglie della rete, e nella pienezza soffocante dei significati
ammessi apre una breccia per la quale potrà spirare un vento d'inquietudine e di vita. (...)
Così, proprio perchè è anzitutto assenza di significato, il clown attinge il significato supremo di contraddittore: nega tutti i sistemi d'affermazione preesistenti e introduce nella massiccia coerenza dell'ordine costituito il vuoto grazie a cui lo spettatore, staccato finalmente da se stesso, può ridere della propria pesantezza.

lunedì 23 aprile 2007

Attrazioni

Erri De Luca, Attrazioni, in
www.festivaldelleletterature.it - 2006

Il verso di una poeta preferita, Marina Cvetaeva, dice: "Oltre l'attrazione terrestre esiste l'attrazione celeste". Esiste, non è immagine poetica, ma una precisa osservazione naturale. C'è una forza che preme dal basso verso l'alto a contrasto della gravità. La trovo nelle eruzioni, nelle maree, nelle correnti d'aria che risalgono pareti di montagne al sole. Sta nell'albero che cerca posto in alto, nella neve che evapora e ritorna nuvola. Dice la leggenda che Newton fu folgorato dalla caduta di una mela. Se ne uscì con la legge di gravità. Ma esiste una forza opposta che sollevò la mela su quel ramo per via di linfa, clorofilla, luce. Un matematico inglese si accorse della legge di caduta, ma ci è voluta una poeta russa per nominare la legge dell'attrazione opposta.
(...)
La bellezza del mondo produce l'energia dell'attrazione celeste, quella di Marina Cvetaeva, dal basso verso l'alto. Si può misurare ed è ancora Marina che lo scopre: "Solo in cima all'entusiasmo l'essere umano vede il mondo esattamente. Dio ha creato il mondo nell'entusiasmo". È segno rivelatore della provvista di bellezza. Nessuna ricerca scientifica esaurisce il compito se non tiene conto dell'entusiasmo che sta nelle forze e nelle forme di natura. Nella geometria di Euclide manca la figura dell'uovo. Il calcolo delle sue misure sfugge, perché così fa la vita con chi la scruta a freddo dall'esterno. Solo da dentro, nell'entusiasmo, si possono prendere le misure all'uovo e alla bellezza. L'entusiasmo è uno strumento di precisione. (...)

domenica 22 aprile 2007

Hogarth, The line of beauty

Linea della bellezza

Peter Handke, Saggio sulla giornata riuscita,
Milano: Garzanti, 2005


Nella giornata riuscita si farà di nuovo giorno nel mezzo della giornata. Qualcosa mi smuoverà, e sarà una duplice mossa: che andrà di là di me, e dentro di me, interamente. Alla fine della giornata riuscità alzerò la fronte per dire che una buona volta ho vissuto come si deve, e lo dirò a fronte così alta che questa sfrontatezza sarà l'esatto opposto del mio guscio innato.
(...)
La Line of Beauty di Hogarth in verità non è incavata nella tavolozza, ma tesa sopra come una fune arcuata, o la corda di una frusta. La giornata riuscita e la concisione. (...) La giornata riuscita e la gaia attesa. La giornata riuscita e lo smarrirsi per scoprire. (...) Chi parla a chi, qui? Io parlo a me. La quiete da corvi pomeridiana. Il correre del bambino, ancora e sempre, sotto il vento. E ancora e sempre, lassù in alto, ecco pendolare per te le palline del platano: "il cuore non c'è più" (tradotto dal francese). E ancora e sempre nel fruscìo, sia pure della ramaglia rinsecchita di una quercia, io divento tu. Che cosa saremmo, noi, senza il fruscìo? E qual è la parola che gli corrisponde? Il Sì (senza voce).

sabato 21 aprile 2007

Brook - I fili del tempo

Peter Brook, I fili del tempo. Memorie di una vita.
Milano: Feltrinelli 2001


(…)
Samuel Beckett mi spiegò che quando scriveva una commedia, la vedeva come una serie di tensioni, nel senso di fili d’acciaio tesi a congiungere un’unità con quella successiva.
Così i cinque atti di un dramma di Shakespeare formano una lunga frase; una frase che accelera, rallenta, fa una pausa, ma che non si ferma mai. Quando la prima parola è pronunciata, una bobina invisibile comincia a srotolarsi.
(…)
Molto tempo addietro era stato un mio professore, una persona molto sensibile, a farmi notare che il ritmo è il denominatore comune di tutte le arti; ma aveva tralasciato di aggiungere, o aveva voluto che lo scoprissi da adulto, che è anche il denominatore comune di ogni esperienza umana. Ora cominciavo poco a poco a riconoscere che questo ritmo è ciò che crea o distrugge ogni istante delle nostre vite.
Come si può vivere un solo giorno nel suo ritmo autentico, un giorno composto di una moltitudine di ritmi che si intreccia sottilmente? Riconoscere il problema non vuol dire sapere la risposta, ma soltanto prendere atto che ogni momento sciupato non ritornerà più.
(…)
Eppure in ogni momento possiamo trovare un nuovo inizio. Un inizio ha la purezza dell’innocenza e l’assoluta libertà di mente di un principiante. Lo sviluppo è più difficile perché, quando l’innocenza lascia il posto all’esperienza, i parassiti, la confusione, le complicazioni e gli eccessi del mondo arrivano in massa. Finire è la cosa più difficile, ma lasciarsi andare dà l’unico vero gusto di libertà. Allora la fine diventa ancora una volta un inizio e l’ultima parola spetta alla vita.
In un villaggio africano quando un cantastorie arriva alla fine del suo racconto, appoggia il palmo di una mano sulla terra e dice”poso qui la mia storia” E aggiunge: “Così forse qualcuno, un giorno, potrà riprenderla”.

Su Robert Walser

Jörg Steiner, La chiave
in www.zibaldoni.it "Per Robert Walser"

Era domenica pomeriggio. Sedevamo davanti a un bicchiere di vino e valutavamo se, malgrado tutti i nostri dubbi, fosse possibile realizzare il progetto del film.
Avevamo intenzione di fare un film su Robert Walser. Potevamo partire da uno o dall’altro dei luoghi dove lo scrittore aveva fatto tappa, dalla banca cantonale, per esempio, oppure dall’albergo ospizio Blaues Kreuz. Stavamo discutendo sulle difficoltà del rapporto con Robert Walser, sul rispetto che gli era dovuto e, cosa ancora più pressante, sulla necessità di non avere rispetto; sulla paura di smarrirsi esclusivamente nella leggenda di Walser; ciascuno sulla propria vergogna.
La discussione che era partita felicemente era arrivata a un punto morto.
Non volevamo ammetterlo.
Amavamo Walser e lo amavamo non senza gelosia nei confronti di altri che pure lo amavano. Chi lo pretendeva soltanto per sé l’aveva già perduto.
Ognuno di noi in quell’istante era gravato e oppresso dall’eredità di Robert Walser.
Finalmente decidemmo di andare a vedere il Blaues Kreuz (...)

Wölfli - Genio e follia

Walter Morgenthaler, Arte e follia in Adolf Wolfli,
Padova: Alet edizioni 2007


Dal profilo della casa editrice Alet
Bersagliato da una sorte avversa che lo volle orfano e bracciante in età giovanissima, protagonista di atti di violenza più autodistruttiva che distruttiva, rinchiuso per trentacinque anni in manicomio, Adolf Wölfli (1864-1930) si rifugiò in un mondo fantastico e delirante di cui è testimonianza una sterminata produzione figurativa. E tuttavia noi non sapremmo nulla di quel mondo se in manicomio, per uno di quegli incroci che non è esagerato dire fatali, Wolfli non avesse incontrato Walter Morgenthaler (1882-1965), lo psichiatra che lo incoraggiò e che ne fece l’oggetto di uno studio pionieristico. Per la prima volta, infatti, l’opera di un malato mentale veniva considerata non solo come sintomo ma anche come autentica forma d’arte. E il fascino del saggio di Morgenthaler è proprio qui, nella sensibilità di un approccio estetico che rinvia continuamente alla domanda fondamentale, se cioè l’arte di Wölfli fosse la diretta espressione della sua malattia, o viceversa il linguaggio dell’ordine contro il disordine mentale.
Qualunque risposta si voglia dare al dilemma, l’opera di Wölfli – ampiamente documentata dalle tavole di questa edizione – ci stupisce per la sua bellezza, per la dialettica fra l’ossessiva ripetitività delle forme e la loro infinita variazione, per il contrasto fra ingenuità e raffinatezza, per la sua straordinaria modernità: una modernità che, come rileva Michele Mari nella sua introduzione, fa di Wolfli il misconosciuto precursore di artisti come Apollinaire, Man Ray, Warhol.

www.aletedizioni.it