domenica 19 dicembre 2010

Vargas Llosa,, discorso dal Nobel

(...) Dalla caverna ai grattacieli, dalla garrota alle armi di distruzione di massa, dalla vita tautologica della tribù all’era della globalizzazione, le finzioni della letteratura hanno moltiplicato le esperienze umane, impedendo che noi uomini e donne soccombessimo al letargo, all’indifferenza, alla rassegnazione. 
Niente ha seminato tanto l’inquietudine, smosso tanto l’immaginazione e i desideri, come questa vita di invenzioni, che aggiungiamo a quella che abbiamo grazie alla letteratura, per essere protagonisti delle grandi avventure, delle grandi passioni che la vita vera non ci darà mai. Le invenzioni della letteratura diventano verità attraverso di noi, i lettori trasformati, contaminati dai desideri e, per colpa della finzione, in permanente contraddizione con la mediocre realtà. 
Stregoneria che, mentre ci illudiamo di avere quello che non abbiamo, essere quello che non siamo, accedere a questa impossibile esistenza in cui, come dei pagani, ci sentiamo terreni ed eterni allo stesso tempo, la letteratura introduce nei nostri spiriti l’anticonformismo e la ribellione, che sono dietro tutte le imprese che hanno contribuito a diminuire la violenza nelle relazioni umane. A diminuire la violenza, non a sconfiggerla. 
Perché la nostra sarà sempre, per fortuna, una storia inconclusa. Per questo dobbiamo continuare sognando, leggendo e scrivendo, il modo più efficace che abbiamo trovato per alleviare la nostra condizione mortale, per sconfiggere il tarlo del tempo e per trasformare in possibile l’impossibile.

Christine Busta

Muttersprache 


Nicht, was die Mutter sagt, 
beruhigt und tröstet die Kinder. 
Sie verstehen’s zunächst noch gar nicht. 

Wie sie es sagt, der Tonfall, der Rhythmus, 
die Monotonie der Liebe 
in den wechselnden Lauten 
öffnet die Sinne dem Sinn der Worte, 
bringt uns ein in die Muttersprache. 

Ein Gleiches 
geschieht auch 
im Gedicht.

 
 Madrelingua

Non quel che la mamma dice
quieta e consola i bimbi.
A tutta prima neanche lo capiscono. 

Come lo dice,
il timbro, il ritmo,
la monotonia dell'amore
nei suoi monotoni suoni
schiude i sensi al senso delle parole, 
introduce alla linguamadre. 

Un che d'analogo
avviene anche
con la poesia.

 La bibliotecaria poetessa: Christine Busta   (poetessa austriaca)

giovedì 16 dicembre 2010

Gabriel Pacheco (Mexico)



el abismo,

(dice alguien: un espejo negro)
y de él
(del tintero)
un conejo dice:

Alicia, Alicia...


("el mundo existe porque existe el libro")



http://gabriel-pacheco.blogspot.com/

mercoledì 15 dicembre 2010

Antonia Pozzi

Poesia che mi guardi


"È il 2 dicembre 1938, Milano. Una giovane donna esce di casa presto, come fa tutte le mattine, per andare a insegnare. Ma se ne va dalla scuola in anticipo, due ore prima del previsto.

(...)

 http://bibliogarlasco.blogspot.com/2010/12/poesia-che-mi-guardi.html

domenica 12 dicembre 2010

Il respiro 2

 Antonia Pozzi, - Parole, a cura di A. Cenni e O. Dino, 2^ ed. ampliata (289 poesie, compresi 2 frammenti), Garzanti, Milano, in  www.antoniapozzi.it


Respiro

Abbandono notturno
sul masso
al limite della pineta
e il tuo strumento fanciullesco
lentamente
a dire
che una stella
due stelle
sono nate
dal grembo del nevaio
ed un’altra sprofonda
dove la roccia è nera -

ed un lume va solo
sul ciglio del ghiacciaio
più grande di una stella
più fioco -
forse la lampada di un pastore -
la lampada di un uomo vivo
sul monte -
colloquio intraducibile
del tuo strumento
col lume dell’uomo vivo -

ascesa inesorabile dell’anima
di là dal sonno -
di là dal nero informe
stupore delle cose -

abbandono notturno
sul masso
al limite della pineta -

Breil (Pasturo), 13 agosto 1933 




Ora la poesia integrale di Antonia Pozzi edita da Sossella con dvd

http://www.lucasossellaeditore.it/Catalogo/Mente/Poesia-che-mi-guardi

giovedì 9 dicembre 2010

Il respiro

 Ingeborg Bachmann, "Il gioco è finito", Invocazione all'Orsa Maggiore, Edizione SE, trad. L. Reitani

Mio caro fratello, quando costruiremo una zattera
per scendere giù lungo il cielo?
Mio caro fratello, presto sarà il carico immenso
e noi affonderemo.

Mio caro fratello, sul foglio tracciamo
molti paesi e binari.
Sta attento, su quelle linee nere
con le mine potresti saltare.

Mio caro fratello, poi voglio gridare
legata stretta al palo.
Ma tu già cavalchi dalla valle dei morti
e insieme fuggiamo.

Desti nel campo di zingari e desti in tenda nel deserto
scorre sabbia dai nostri capelli,
la tua, la mia età e l'età della terra
non si misura con gli anni

Non lasciarti ingannare dall'astuzia dei corvi,
da una zampa vischiosa di ragno, dalla penna nel rovo,
nel paese della cuccagna non mangiare e non bere,
schiuma apprenza da padelle e bicchieri

Solo chi al ponte d'oro, per la fata rubino,
la parola sa ancora, ha vinto.
Devo dirti che con l'ultima neve
si è sciolta nel giardino.

Han piaghe i nostri piedi per molte e molte pietre.
Uno è sano. Con lui salteremo,
finchè il re dei fanciulli con in bocca la chiave del regno
non ci prenderà con sé e noi canteremo:

E' una bella stagione, quando il dattero è in fiore!
Chi cade ha le ali.
Purpurea digitale orla il sudario dei poveri,
e il tuo tesoro sul mio sigillo come foglia cala.

Si va a dormire, caro, il gioco è finito.
In punta di piedi. Si gonfiano le camicie bianche,
Papà e mamma dicono che ci sono i fantasmi
quando scambiamo il respiro.

giovedì 25 novembre 2010

La lingua, ancora


Scriveva Paul Celan nel 1958, in un discorso a Brema, in occasione di un premio letterario:

«Raggiungibile, vicina e non perduta in mezzo a tante perdite, una cosa sola: la lingua».

mercoledì 17 novembre 2010

Il brusio della lingua

Roland Barthes, Il brusio della lingua, Einaudi 1988, pp. 79-81;  Le bruissement de la langue, 1984

 
“La parola è irreversibile, questa è la sua fatalità. Ciò che è stato detto non può più essere modificato, se non aumentandolo: correggere vuol dire qui, stranamente, aggiungere. Parlando non posso mai cancellare, sopprimere, annullare; tutto quel che posso fare è dire «annullo, cancello, rettifico» – insomma, ancora parlare. Chiamerò «balbettio» tale singolarissimo annullamento per via di aggiunte.
Il balbettio è un messaggio due volte mancato: da una parte lo si capisce male, ma dall’ altra, con un certo sforzo, lo si capisce comunque; non è veramente né nella lingua né al di fuori di essa: è un rumore del linguaggio paragonabile a quella serie di crepitii con i quali un motore ci segnala di non essere a punto; è proprio questo il senso del perdere colpi, segno sonoro di un tracollo che si profila nel funzionamento dell’oggetto. Il balbettio (del motore o del soggetto) è, in sostanza, una paura: ho paura di dovermi fermare strada facendo.
(...)
 
Il brusio è il rumore di ciò che funziona bene. Ne deriva il seguente paradosso: i1 brusio denota un rumore limite, impossibile, il rumore di ciò che, funzionando alla perfezione, non fa rumore; il brusio è l’evaporazione stessa del rumore: il tenue, il confuso, il tremulo sono percepiti come i segni di un annullamento sonoro.
 (...)
E la lingua, può produrre brusio? In quanto parola, sembrerebbe condannata al balbettio; come scrittura, al silenzio e alla distinzione dei segni: in ogni caso, rimane sempre troppo senso perché il linguaggio giunga a un godimento proprio alla sua materia. Ma quel che è impossibile non è inconcepibile: il brusio della lingua forma un’utopia.
(...)

Mi immagino oggi un po’ alla maniera dei Greci antichi, cosi come li descrisse Hegel: interrogavano, sosteneva, con passione e senza stancarsi il brusio delle fronde, delle sorgenti, dei venti, insomma il fremito della Natura, per trovarvi il disegno di un’intelligenza. Ed io interrogo il fremito del senso ascoltando il brusio del linguaggio – di quel linguaggio che è la mia Natura peculiare di uomo moderno.”

venerdì 5 novembre 2010

Ai naviganti


Luigi Ghirri, Niente di antico sotto il sole

"Anche l'ascolto del bollettino per i naviganti mi fa sempre uno strano 

effetto. Trasmesso giornalmente alla radio, con il suo susseguirsi 

monotono di nodi e forza sei e sette, richiama alla mente, più che 

marosi e avventure in mari inesplorati, la dolce nenia delle onde 

che si adagiano sulla sabbia di qualche spiaggia"





venerdì 15 ottobre 2010

Emily Dickinson, Grief is a Mouse

Il dolore è un topo -
sceglie l’intercapedine nel petto
per timido nido  -
ed elude la caccia -
Il dolore è un ladro - rapido nel trasalire -
tende l’orecchio - per cogliere un suono
di quel vasto buio -
che ha trascinato la sua vita - indietro -
Il dolore è un giocoliere – ardito nell’esibirsi -
perché se  esita  - l’occhio per di lì
non colga  i suoi lividi – siano uno o tre -
Il dolore è un buongustaio - moderato nel lusso -
Il dolore migliore non ha lingua  -
prima che parli – bruciatelo in piazza -
le sue ceneri – lo faranno
forse – se rifiutano – come sapere  -
ormai nemmeno la tortura ne caverebbe una sillaba.
(Poesia n.  793)
Poesie, testo inglese a fronte, Newton Compton 2010

martedì 31 agosto 2010

Memoria

"Lo intuiva benissimo: per me, non meno che per lei, più del possesso delle cose contava la memoria di esse, la memoria di fronte alla quale ogni possesso, in sè, non può apparire che delusivo, banale, insufficiente".

Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi Contini, parte IV

venerdì 20 agosto 2010

L'acqua 1

Anne Carson, Antropologia dell’acqua, Riflessioni sulla natura liquida del linguaggio
a cura di Antonella Anedda, Elisa Biagini, Emmanuela Tandello Donzelli Editore, 2010

L’acqua non è una cosa che puoi trattenere. Come gli uomini. Ho provato. Padre, fratello, amante, amici veri, fantasmi affamati e Dio, uno per uno, tutti mi sono scivolati via dalle mani. Forse è così che deve essere quello che gli antropologi chiamano il “rischio medio” dell’incontro con altre culture. Fu un antropologo a spiegarmi cosa fosse il rischio. Sottolineava l’importanza di usare, parlando di queste cose, il termine incontro piuttosto che ad esempio scoperta. Pensala come differenza – disse – tra il credere ciò che vuoi credere e il credere ciò che può essere provato. Ci pensai. Non voglio credere a nulla, dissi. (Ma mentivo). E non ho nulla di dimostrare. (Mentivo ancora). Mi piace soltanto viaggiare nel mondo e fermarmi, osservando cosa c’è sotto il cielo. (Questo è vero).

mercoledì 4 agosto 2010

Gianni Celati, lezione di tenebre


 
Gianni Celati, Sonetti del Badalucco, Feltrinelli 2010

 Prima lezione di tenebre

Solo di tenebre posso dar lezione,
la chiarezza la lascio a chi è più matto;
non l’ebbi da mio padre in dotazione,
che assai poco mi lasciò di fatto.

Il padre affetto da un male al polmone,
cosa lasciò in eredità a Vecchiatto?
La pioggia che lo bagna e decompone,
il freddo che lo gela e rende sfatto,

le ceneri d’una vaga ambizione
di trovare chissà dove un riscatto
dalla mortale umana condizione,
mentre è nella greve gora attratto.

Ma gli lasciò poi anche la tendenza
a viver come tutti d’incoscienza.

Seconda  lezione di tenebre

Di tenebre si tace e chi ne parla
è dal consorzio civile isolato,
perché ogni tizio un po’ civilizzato
deve sempre mostrar con la sua ciarla

che sa dov’è la luce. E trascinato
dai discorsi degli altri  (che poi a farla,
la luce, ci pensan poco) può darla   
come un dato di fatto assicurato.

Dopo di che, ogni furbo che straparla,
con nuovi lumi oscuri come il fato,                              
succhierà soldi al tizio costernato
dal timore del buio che lo tarla.

Vecchiatto non vuol certo aver ragione,
ma rende omaggio al nostro tenebrone.

sabato 24 luglio 2010

Leo Leonni , Federico


Lungo il prato, dove un tempo pascolavano le mucche, c’era un vecchio muro. Fra le pietre del muro, vicino al granaio, cinque allegri topi di campagna avevano costruito la loro casa. Ma quando i contadini avevano abbandonato la fattoria, il granaio era rimasto vuoto. L’inverno si avvicinava e i topolini dovettero pensare alle scorte. Giorno e notte si davano da fare a raccogliere grano e noci, fieno e bacche. Lavoravano tutti. Tutti tranne Federico. 
"Federico, perché non lavori?" chiesero. Come non lavoro, rispose Federico un po’ offeso. "Sto raccogliendo i raggi del sole per i gelidi giorni d’inverno". E quando videro Federico seduto su una grossa pietra, gli occhi fissi sul prato, domandarono: "E ora, Federico, che cosa fai?"
" Raccolgo i colori ", rispose Federico con semplicità. "L’inverno è grigio"
Un’altra volta ancora, Federico se ne stava accoccolato all’ombra di una pianta. "Stai sognando, Federico? " gli chiesero con tono di rimprovero. Federico rispose: "Oh, no! Raccolgo le parole. Le giornate d’inverno sono tante e lunghe. Rimarremo senza nulla da dirci".
Venne l'inverno e quando cadde la prima neve, i topolini si rifugiarono nella tana tra le pietre. In principio si rimpinzarono allegramente e si divertirono a raccontarsi storie di gatti sciocchi e volpi rimbambite. Ma, a poco a poco, consumarono gran parte delle noci e delle bacche, il fieno finì e il grano era solo un lontano ricordo. Nella tana si gelava e nessuno aveva più voglia di chiacchierare. Improvvisamente si ricordarono ciò che Federico aveva detto del sole, dei colori e delle parole. 
"E le tue provviste, Federico?" chiesero. "Chiudete gli occhi ", disse Federico, mentre si arrampicava sopra un grosso sasso. "ecco, ora vi mando i raggi del sole. Caldi e vibranti come oro fuso..." e mentre Federico parlava, i quattro topolini cominciarono a sentirsi più caldi. Era la voce di Federico? Era magia? "e i colori, Federico?" chiesero ansiosamente. "Chiudete ancora gli occhi ", disse Federico. E quando parlò del blu dei fiordalisi, dei papaveri rossi nel frumento giallo, delle foglioline verdi dell'edera, videro i colori come se avessero tante piccole tavolozze nella testa. 
"E le parole, Federico?" Federico si schiarì la gola, aspettò un momento, e poi, come da un palcoscenico, disse: 
"Chi fa la neve il prato , il ruscello? Chi fa il tempo brutto oppure bello? Chi dà il colore alle rose e alle viole? Chi accende la luna e il sole? Quattro topini, azzurri di pelo, che stanno lassù a guardarci dal cielo. Uno fa il sole e l'aria leggera e si chiama topino di Primavera. Bouquets profumati... serenate, ce li regala il topino dell'Estate. Il topino d'Autunno fa scialli e ricami con foglie dorate strappate dai rami. Il topino d'Inverno, purtroppo si sa, ci dà questa fame... e il freddo che fa. Le stagioni sono quattro. Ma a volte vorrei che fossero sette, o cinque, o sei. " Quando Federico ebbe finito, i topolini scoppiarono in un caloroso applauso. " Ma Federico", dissero, " tu sei un poeta! Ti faremo una corona d'alloro!"
Federico arrossì, abbassò gli occhi confuso, e timidamente rispose: 
" Non voglio applausi, non merito alloro. Ognuno, in fondo, fa il proprio lavoro".

domenica 18 luglio 2010

Microliti, Paul Celan

Paul Celan, Microliti, Zandonai, 2010
«Microliti sono, pietruzze appena percepibili, lapilli minuscoli nel tufo denso della tua esistenza – e ora tenti, povero di parole e forse già irrevocabilmente condannato al silenzio, di raccoglierli a cristalli? Rifornimenti sembri attendere – donde dovrebbero venire, di’?». (1956)

Mikrolithen sinds, Steinchen, kaum wahrnehmbar, winzige Einsprenglinge im dichten Tuff deiner Existenz – und nun versuchst du, wortarm und vielleicht schon unwiderruflich zum Schweigen verurteilt, sie zusammenzulesen zu Kristallen? Auf Nachschübe scheinst du zu warten – woher sollen die kommen, sag?

domenica 20 giugno 2010

I morti, Billy Collins


Billy Collins, I morti

I morti stanno sempre a guardarci da lassù, si dice,
quando infiliamo le scarpe o facciamo uno spuntino
ci guardano dal fondo trasparente delle loro barche in cielo
mentre remano se stessi lentamente attraverso l’eternità.

Osservano le teste muoversi lì sotto sulla terra
e quando ci sdraiamo su di un campo o sul divano
storditi forse dal ronzare di un pomeriggio afoso
concludono che anche noi guardiamo loro
per questo tirano su i remi e rimangono in silenzio
aspettano, come genitori, che noi chiudiamo gli occhi.

 *

The dead are always looking down on us, they say.
while we are putting on our shoes or making a sandwich,
they are looking down through the glass bottom boats of heaven
as they row themselves slowly through eternity.

They watch the tops of our heads moving below on earth,
and when we lie down in a field or on a couch,
drugged perhaps by the hum of a long afternoon,
they think we are looking back at them,
which makes them lift their oars and fall silent
and wait, like parents, for us to close our eyes.




Antologia di 180 poeti contemporanei a cura di Billy Collins, poeta laureato, USA 

ACTION POETRY 

domenica 30 maggio 2010

Citati, I sonni di Penelope

P. Citati, La mente colorata. Ulisse e l’Odissea, Mondadori, 2002

 

Penelope dorme sempre. Quando Telemaco la rimprovera perché non comprende la poesia, torna nella sua stanza e piange il marito finché Atena le getta sulle palpebre «un dolce sonno»: quando teme per la sorte di Telema­co, insidiato dai Proci, la coglie un sonno profondo e le membra le si sciolgo­no: quando piange Ulisse, Atena la fa dormire: quando non vorrebbe scende­re tra i Proci, dorme reclinata sulla sedia; e persino mentre nel mégaron Ulisse massacra i Proci, lei sale nella sua stanza, e Atena le getta sulle palpebre l'in­canto di Ermes. Durante il sonno, la visitano grandi sogni, che le annunciano la salvezza di Telemaco o il ritorno di Ulisse o glielo presentano vicino, sul let­to, accanto o a lei. Così vive Penelope: avvolta dall'ombra, dalla morbidezza, dalla quiete e dall'incertezza dell'inconscio, come nessun altro personaggio dell'Odissea.
Per Ulisse il sonno è un'esperienza più tremenda: «simile alla mor­te», dice Omero; ciò che non viene mai detto per Penelope. Mentre gli si chiu­dono le palpebre, egli subisce l'assalto degli dèi o conosce crisi profondissime, passaggi da un tempo e da uno spazio a un altro tempo e a un altro spazio. Non sogna mai: né sogni veri né ingannevoli lo visitano.
Penelope conosce il morso dell'insonnia: acute ansie, strazi intollerabili, rimpianti. incertezze, dolori che la condizione di veglia non può sopportare. E proprio per questo esalta il sonno, il «limite», che gli dèi hanno imposto ai mortali. Quello che le invia Atena è quasi sempre dolce. Dobbiamo immagi­narlo come una sostanza liquida, che viene versata sugli occhi e sul corpo di Penelope e quindi «scioglie le membra» (come le sciolgono l'amore e la mor­te), e insieme le avvolge e lega solidamente come la più stretta delle costrizio­ni. Il sonno ha questo doppio dono di «sciogliere» e di «legare». Chi, come Pe­nelope, vi è sottoposto, dimentica le pene e la realtà dolorosa: risolve le crisi che la veglia non sa risolvere; ottiene la quiete - sebbene questa quiete anticipi la quiete definitiva della morte:
Un mite sopore mi ha avvolta, me tanto infelice. 
Oh se una morte così mite la pura Artemide
subito ora mi desse ...
Mentre Ulisse vede Atena, sia pure trasformata, Penelope non la scorge mai, né come giovine figlio di principe né come esperta artigiana. La divinità penetra in lei: scende nel sogno, e allora un fantasma le entra nella stanza, pro­venendo dal Paese dei Sogni, si ferma sul suo capo e le parla. Oppure Atena le invia consigli e ispirazioni dallo spazio divino. Tutte le decisioni principali di Penelope le vengono da Atena e dagli dèi: sia quella di preparare il sudario per Laerte, sia quella di scendere tra i Proci, sia quella di preparare la gara con l'arco. Penelope è un'ispirata, in tutto i1 corso dell'Odissea.
Questa creatura del sonno e dei sogni è anche una figlia della ragione: un'imperterrita calcolatrice e ragionatrice. Una frase l'accompagna: sia per An­tinoo sia per Atena sia per Ulisse, la mente della regina «medita altro». Che essa mediti altro di quanto dice, significa ciò che Achille pensa di suo marito: «una cosa nasconde nel cuore e un'altra ne dice». Quindi lo spirito di Penelope è sempre doppio: mentre parla, una forza segreta, che agisce dentro di lei, ra­giona, trama, macchina, calcola, inganna, esattamente come fa Ulisse.
L'Odissea dedica tre brani quasi identici al sudario - un «drappo sottile e as­sai ampio» - che Penelope tesse e disfa per Laerte: un capolavoro di artigiana­to e di inganno come il cavallo di Troia fatto costruire da Ulisse, e anch'esso ricordato tre volte. Il marito e la moglie sono simili e dissimili: si contraddico­no e si completano. Penelope sogna e Ulisse non sogna: mentre Penelope è succube degli dèi, Ulisse coincide con il proprio destino: entrambi calcolano, diffidano, ingannano, mentono, mettono alla prova. Da questo gioco intricato di somiglianze, dissimiglianze e riflessi, nasce la «concordia» profondissima tra il marito e la moglie, che Ulisse aveva esaltato parlando con Nausicaa
... non c'è bene più saldo e prezioso
di quando con pensieri concordi reggono la casa
un uomo e una donna
Chiusa nel carcere di Itaca men­tre Ulisse è chiuso nel carcere di Ogigia, Penelope desidera arden­temente il marito, con tutte le forze dello spirito e dell'eros. Ulisse le manca: lei lo ricorda di continuo, senza di lui si sente monca; soffre per lui e piange per lui, fino a quan­do Atena le versa sulle palpebre il sonno.

sabato 29 maggio 2010

Per caso mentre tu dormi

Antonio Porta, Tutte le poesie (1956-1989), a cura di Niva Lorenzini, Garzanti, 2009

Per caso mentre tu dormi
per un involontario movimento delle dita
ti faccio il solletico e tu ridi
ridi senza svegliarti
così soddisfatta del tuo corpo ridi
approvi la vita anche nel sonno
come quel giorno che mi hai detto:
lasciami dormire, devo finire un sogno

martedì 11 maggio 2010

Nancy, sonno

Jean -Luc Nancy, Cascare dal sonno, Raffaello Cortina, 2010

E' necessario poi essere addormentati. Ma il verbo riflessivo induce un'illusione. Nessuno si addormenta da sè. Il sonno viene da altrove: ci cade addosso, ci fa cadere in lui. Occorre dunque essere stati addormentati. Occorre essere stati addormentati dal sonno stesso - da quello della stanchezza o del piacere, da quello della noia - oppure a qualche via d'accesso al suo dominio. Ciò che conduce al sonno ha la forma del ritmo, della regolarità e della ripetizione. Dormire non consiste in un processo comparabile a quello del camminare, del mangiare o del pensare. (...) I dondolii ci addormentano perchè il sonno nella sua essenza è di per sè un dondolio, non uno stato stabile e immobile.
Qualunque sia la sua età, nessuno entra nel sonno senza una culla.

venerdì 7 maggio 2010

Risset, il sonno di mia madre

Jacqueline Risset, Le potenze del sonno, Nottetempo, 2010

 Qualche volta, dovevamo accompagnare alle serate dell'Associazione mia madre (...)
Mia madre ci veniva con grande piacere. Alcuni argomenti la appassionavano, altri meno. Ma si addormentava sempre. Muovendosi e lavorando fin dal primo mattino nella grande casa e nel vicino collegio, che dirigeva con energia, le sue serate erano invase, a casa o altrove, da ondate di sonno brusco, incontenibile. Quando era con noi al tavolo sparecchiato della cena, dove giocavamo o disegnavamo - mentre lei abbozzava sul suo grande quaderno i nostri ritratti - all'improvviso sulla sedia, chiudeva gli occhi; qualche volta parlava nel sonno.
Con una voce esitante da Pizia, una sera disse questa frase misteriosa: "Domani, a scuola, vi porteranno dei supporti"(...)  "Ah, sì, mamma, e per fare cosa?"  Lei, sempre con gli occhi chiusi, declamando lentamente: "Per sopportare le persone cattive".(...)
Il sonno, e perfino il sonno di adulto - ma femminile - ci riguardava, ci apparteneva: era una figura dell'infanzia


 

venerdì 30 aprile 2010

Carver, il dono

Raymond Carver, Il dono, in Blu oltremare, Minimum Fax 1996


(...)
"Questa mattina c'è neve dappertutto. Lo notiamo entrambi.
Mi dici che non hai dormito bene. Ti confesso
che nemmeno io. Hai passato una nottataccia. " Anch'io".
Siamo straordinariamente calmi e teneri l'un con l'altro
come se avvertissimo il nostro traballante stato mentale.
Come se ognuno sapesse cosa prova l'altro. Anche se,
naturalmente, non lo sappiamo. Non lo si sa mai. Non importa.
È la tenerezza che mi preme. È questo il dono
che mi commuove e mi prende tutto questa mattina.
Come tutte le mattine.


(Traduzione di Riccardo Duranti)

lunedì 29 marzo 2010

Rodari, Un uomo maturo con un orecchio acerbo

 Gianni Rodari, Parole per giocare, Einaudi 1979

Un giorno sul diretto Capranica-Viterbo
vidi salire un uomo con un orecchio acerbo.
Non era tanto giovane, anzi era maturato,
tutto, tranne l'orecchio, che acerbo era restato.
Cambiai subito posto per essergli vicino
e poter osservare il fenomeno per benino.
"Signore, - gli dissi - dunque lei ha una certa età:
di quell'orecchio verde che cosa se ne fa" ?
Rispose gentilmente: " Dica pure che son vecchio.
Di giovane mi è rimasto soltanto quest'orecchio.
E' un orecchio bambino, mi serve per capire
le cose che i grandi non stanno mai a sentire:
ascolto quel che dicono gli alberi, gli uccelli,
le nuvole che passano, i sassi, i ruscelli,
capisco anche i bambini quando dicono cose
che a un orecchio maturo sembrano misteriose."
Così disse il signore con un orecchio acerbo
quel giorno sul diretto Capranica - Viterbo.

domenica 14 marzo 2010

Antonio Prete, tradurre, addii

Antonio Prete, Trattato della lontananza, Bollati, 2008

La prossimità del mare a colui che dice addio sta nella comunanza di uno spaesamento, di una non appartenenza.
Il mare non ha pace. Come le nuvole per lo straniero in cammino. Chi è in cammino cerca somiglianza con ciò che è in movimento, che non consiste.

(...) Tradurre, me ne sarei accorto dopo, è protrarre le parole di un addio. Perchè nella separazione dell'autore, nella lontananza, temporale e geografica e linguistica dell'autore, si ricompone una presenza: la nuova lingua, la lingua del traduttore, accogliendo nella sua casa l'originale, offrendo ad esso un nuovo abito, nuovi suoni, nuovi ritmi, istituisce uno spazio-tempo perchè quella distanza - che è distanza dall'originale- sia compensata, o almeno mitigata.

sabato 20 febbraio 2010

Antonella Anedda

Antonella Anedda, Dal balcone del corpo, Mondadori, 2008

da Per un nuovo inverno

nella morte di A.R   (Amelia Rosselli)

Se non fosse che questo: giungere a un luogo

esattamente pronunciarne il nome, essere a casa.

Felice inverno adesso che il nuovo inverno è passato

da un inizio per noi ancora senza nome

non diverso dal varco estivo di reti

forse, un cerchio debole di lumi.

Intorno, solo piante

che non avresti fatto in tempo a scansare

acqua soffiata sulle pietre - grandine

che mai sapremo se è arrivata col suono

che faceva sui tetti là nel tuo tempo

nella bianca, umana pulizia dei bagni.

Finora solo passi recisi

che forse ascolti con ardente silenzio

e aria tra gli aranci mossi piano dai vivi.

Vedi qui nulla per la prima volta si perde.

Stamattina hanno battuto la terra

fredda - colma della gioia dell'acqua

ha dimenticato per te

la sbarra della sedia, la nuca rovesciata

il vento del cortile.

Così felice notte ora che di nuovo è notte

e non è vero che il gelo resti

e abbassi piano il pensiero

forse uno scatto invece schiude qualcosa in alto

molto in alto

una nota

oltre il becco oltre gli occhi lucenti di un uccello

una scheggia di collina - quella laggiù

serrata al tetto verde-bronzo della chiesa.

Felice notte a te

per sempre priva di abisso, una steppa dell'anima-sommessa

dove l'ulivo si piega senza suono

Gerusalemme della quiete

della quiete e del tronco che cerchia e incide la morte

che la succhia nel vuoto e nel vuoto la getta

e la macera piano.

Non ho voce, né canto

ma una lingua intrecciata di paglia

una lingua di corda e sale chiuso nel pugno

e fitto in ogni fessura

nel cancello di casa che batte sul tumulo duro dell'alba

dal buio al buio

per chi resta, per chi ruota.

venerdì 5 febbraio 2010

Tao Tè Ching

Trenta raggi convergono sul mozzo
ma è il vuoto al centro della ruota
che fa muovere il carro.
Per fare i vasi si lavora l'argilla,
ma è dal vuoto interno
che dipende il loro uso.
In una casa s'aprono porte e finestre:
è sempre il vuoto
che la rende abitabile.
Le possibilità che l'essere dà
è il non essere 

che le rende utili.

domenica 17 gennaio 2010

Elisabeth Bishop, Un'arte

L’arte di perdere non è una disciplina dura
tante cose sembrano volersi perdere
che la loro perdita non è una sciagura.

Perdi qualcosa ogni giorno. Accetta la tortura
delle chiavi di casa perse, delle ore spese male.
L’arte di perdere non è una disciplina dura.

Esercitati a perdere di più, senza paura:
luoghi, e nomi, e destinazioni di viaggio.
Nessuna di queste perdite sarà mai una sciagura.

Ho perso l’orologio di mia madre. Era
mia ed è svanita – ops! – l’ultima di tre case amate.
L’arte di perdere non è una disciplina dura.

Ho perso due vasti regni, due città amate,
due fiumi, un continente. Mi mancano,
ma non è mica un disastro averle perdute.

Nemmeno perdere te (la figura, la voce allegra
il gesto che amo) mi smentirà. È chiaro, ormai:
l’arte di perdere non è una disciplina dura,
benché possa sembrare (scrivilo!) una sciagura.

(trad. Marilena Renda)

One Art
by Elizabeth Bishop


The art of losing isn’t hard to master;
so many things seem filled with the intent
to be lost that their loss is no disaster.

Lose something every day. Accept the fluster
of lost door keys, the hour badly spent.
The art of losing isn’t hard to master.

Then practice losing farther, losing faster:
places, and names, and where it was you meant
to travel. None of these will bring disaster.

I lost my mother’s watch. And look! my last, or
next-to-last, of three loved houses went.
The art of losing isn’t hard to master.

I lost two cities, lovely ones. And, vaster,
some realms I owned, two rivers, a continent.
I miss them, but it wasn’t a disaster.

—Even losing you (the joking voice, a gesture
I love) I shan’t have lied. It’s evident
the art of losing’s not too hard to master
though it may look like (Write it!) like disaster.

martedì 5 gennaio 2010

Cortesia


La cortesia non consiste nel fornire occasionalmente cose piccole, bensì nel fornire cose grandissime come fossero piccolissime.


(Walter Benjamin, da L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica)



Saper dare fiducia è una grazia delle più rare. 


(Guido Ceronetti, Pensieri del the)