martedì 28 febbraio 2012

domenica 19 febbraio 2012

Del nuotare

     Era inevitabile e direi fatale che, nuotando sott’acqua in apnea nell’ipnotica fissità dei fondali, io m’imbattessi, dopo Ferito a morte, nella leggenda di Colapesce, che ne è una specie di lontano prototipo. Mito e favola del ragazzo mezzo uomo e mezzo pesce mi arrivavano dalle azzurre profondità del mio Tirreno, e tirrenico più che greco e siculo io sentivo questo antico racconto. Dopo Croce, e Calvino, e Sciascia, che tra i moderni lo raccolsero e lo riscrissero ciascuno a suo modo, venne anche a me il desiderio di riprenderlo e raccontarlo a modo mio. 
L’occasione fu il compleanno di mia figlia che ancora non sapeva leggere e che dunque si trovava nella condizione ideale per ascoltare le favole che le inventavo. Mi stava a sentire con una specie di sognante rapimento, con due occhi d’ambra chiara che pendevano dalle mie labbra e accoglievano come oro colato ogni mia parola, e tutto, ogni minimo particolare, metteva in moto la sua intatta fantasia. Oh, se i miei lettori mi leggessero come lei mi ascoltava! Scrissi questa favola per lei, per farle immaginare la bellezza dello scenario sottomarino, e anche per prepararla – quando sarebbe stata in grado di farlo – alla lettura di Ferito a morte. Mi piaceva farle credere che anche io ero stato un po’ come Colapesce, e che se le mie mani e i miei piedi non erano forniti di membrane per meglio nuotare, le pinne di gomma potevano benissimo sopperire a questa mancanza. 
Volevo che quando fosse stata più grande capisse che se avevo scelto il mare come elemento essenziale del mio libro era perché nel mare avevo trovato in un primo momento la beata regressione dell’infanzia (e una tregua al dolore), il liquido amniotico della mia ispirazione, il richiamo perenne e insostituibile dell’Altrove, del Regno Sconosciuto. E poi, man mano anche lei crescendo avrebbe potuto riconoscere nel mare il luogo della felicità, della “bella giornata” e della ferita che essa nasconde


Raffaele La Capria, Colapesce

Raffaele La Capria Esercizi superficiali. Nuotando in superficie, Mondadori 2012

domenica 5 febbraio 2012

Anedda - Lei è (e non è) mia madre


Antonella Anedda, Salva con nome, Mondadori 2012
Mette in fila i ricordi
loro gridano che non sono mai esistiti.
Mette in fila i nomi
loro battono insieme come cucchiai di legno
Mette in fila i visi e loro a schiera si sfaldano
confondendo le unghie con i suoni.
Parla con l’aria: “Tu non ferisci”, dice,
ma l’aria brucia e rade - a falce - il passato.
1
Nelle sue orecchie il mondo arriva a ondate.
In una il dolore è più ottuso. Nell’altra c’è più aria.
Anche nel sonno sente l’ovatta e le fiamme.
La fronte tocca le ginocchia piegate.
Torna a essere un feto che ignora l’infinito.
 2
Abbandonandosi trova una fessura.
Non resistendo il dolore trova finalmente la vena.
Trasmutando si placa.
I passi nel selciato ora raggiungono la gola.
Stridono come carri sul petto. Odorano di acciaio.
Il timpano traghetta - bianco su nero -
-come formica e pane- un ultimo pensiero.
 
3
Anche cadendo continua a dormire.
La bocca sul pavimento non sente il freddo.
La raccolgono, la voltano.
La nuca non trema, sta come muschio nelle mani.
Il corpo è tutto nero. Dietro ci sono le sfere dei monti, la sbarra dei lecci.
Il cielo le posa una benda di pioggia sulla schiena.
Una foglia gialla è una goccia d’unguento sulla fronte.
Prima di sgorgare il sangue si raccoglie in un catino di osso.
A distanza e indietro. Lei è (e non è) mia madre.