mercoledì 26 dicembre 2012

In nessun luogo c’è bisogno di noi



tra un mese l’anno
avrà una cifra baltica, bianca
millenovecentonovantuno
dove il mille indietreggia
fino a secoli-steppe
e l’uno, cavo,
tintinna.
Nessuno ci ha chiamato
erano voci d’orto, fischi
per scacciare gli uccelli
la poca pioggia che cola
dai tubi della casa
deserta
come carta.
Ci sono solo i fiati
e il bacile appannato
e le noci che dicono
autunno moltiplicato sopra tavoli
pietre su posti vuoti.
In nessun tempo c’è bisogno di noi
le notti verticali
e il viale dei tigli, la lepre
trasparente nel cespuglio
la schiena-ombra di chi allora sostava
ora soffiano stanchi
sulla tempia del secolo.
C’è un cibo serale, lampi
sulle foto scoscese
e noi beviamo tra le forchette brune
i volti stretti ai bicchieri
per la lenta paura che s’incide
sul gomito che alza una ghirlanda.
Nessun tempo ha bisogno di noi
nessuno dice
il numero dei colpi
l’esatta cifra dell’erba
né come l’aria
sferzandoci
ci farà dura pelle, scoiattoli.
Lo slittare di foglie
la lontananza delle costellazioni.
Non ho parole cupe
non cupe abbastanza.
Il pino s’infossa nella notte
a fatica decifro la memoria.
Di lato c’era come un recinto
e lì duravano le cose

(per j. s.)  Antonella Anedda


venerdì 14 dicembre 2012

Stanze della funicolare

E intanto ho conosciuto l'Erebo
 - l'inverno in una latteria.
Ho conosciuto la mia
Proserpina che nella scialba
veste lavava all'alba
i nebbiosi bicchieri.

....

Giorgio Caproni

venerdì 30 novembre 2012

Rosa e Cesare


Rosa Calzecchi Onesti fu scelta da Cesare Pavese perchè facesse la traduzione dei poemi omerici per l'Einaudi. Ne nacque una corrispondenza e una collaborazione preziosa.

Ha fatto conoscere Omero a generazioni di studenti

sabato 10 novembre 2012

Inferi


Facilis descensus Averno:
noctes atque dies patet atri ianua Ditis;
sed revocare gradum superasque evadere ad auras,
hoc opus, hic labor est.
"

[Eneide VI, 126-129]
[Scendere agli Inferi è facile: la porta di Dite è aperta notte e giorno; ma risalire i gradini e tornare a vedere il cielo, qui sta il difficile, qui la vera fatica.]

sabato 6 ottobre 2012

Anna Achmatova, Non sappiamo congedarci


Non sappiamo congedarci, –
vaghiamo sempre spalla a spalla.
Ormai comincia a imbrunire,
tu sei pensoso e io taccio.

Entriamo in chiesa, vediamo
messe funebri, battesimi, nozze,
senza guardarci, usciamo…
Perché per noi non è così?

O sediamo sulla neve sfatta
al cimitero, sospiriamo lievemente,
col bastone tu disegni palazzi
dove insieme sempre saremo.



 Anna Achmatova,  È flebile la mia voce e altre poesie, Via del vento edizioni, Pistoia, 2012,  trad.  Paolo Galvagni.

domenica 30 settembre 2012

Roberto Roversi (Bologna, 28 gennaio 1923 – Bologna, 14 settembre 2012)


...
È morto il capitano. Cade
in mare ogni luce di festa
dai giovani cuori; a riva
le donne attendono ammucchiate
....
(Dopo Campoformio)

....

Quanto c’è da fare perché una poesia sia una poesia
non solo correggere ma anche camminare
...
(La partita di calcio)


...
Può la morte ordire il suo acuminato massacro
ridurre in cenere il delfino
il vascello in fuoco
la sovrastante nuvola in ciclone e
travolgere la vita?
Il fervore trascinato in gorgo
l’esistente in un attimo è scomparso
giovinezza è il ricordo poi sull’occhio ottuso
del cielo interminabile di tetti
e alla fine dimenticare la tomba
dei vecchi eroi?
Quante primavere gli uomini fuggitivi
abbandonano alle giovani ali che arrivano portate dal
garbino?
Si può considerare l’opportunità di non rassegnarsi
bruciare il carro del vincitore
anche le nostre bandiere.
Per favore.

(L'Italia sepolta sotto la neve)




mercoledì 5 settembre 2012

Tutto passa

«Che cosa resta di una vita? Che resta mai, una volta eliminati i poiché dunque infatti tuttavia, di una vita? Della sottile tessitura di una vita? Pochissimo. Qualche momento forte, tre, quattro, cinque. Forse venti, in esistenze frenetiche. Si vive alla giornata, esagerando piccoli eventi, ho fatto questo, non ho fatto quello, e un’iniziativa da prendere, un ritardo da recuperare, emergenze da risolvere, impegni da mantenere, ma alla resa dei conti, non resterà niente o ben poco di tutti questi anni. 

Nuota. È una vecchia soddisfazione, per lei, saper nuotare. Aver saputo, prima della maggior parte degli altri allievi della sua classe, nuotare, o galleggiare, o anche soltanto entrare in acqua senza timore, senza l’idea di affogare. Tutto galleggia». 

Bernard Comment,  Tutto passa, Sellerio 2012

domenica 2 settembre 2012

L'ultima cosa...



....che si impara scrivendo un libro è come cominciare.

Blaise Pascal, Pensieri


sabato 1 settembre 2012

La signora Dalloway disse che i fiori li avrebbe comprati lei

Nuova traduzione per Einaudi di Anna Nadotti de "La signora Dalloway "di Virginia Woolf. 
Introduzione di Antonella Anedda


"Noi non conosciamo la nostra anima, figuriamoci l'anima degli altri. Gli esseri umani non procedono mano nella mano per tutta la strada. C'è una foresta vergine in ognuno;: un campo innevato dove anche l'impronta di un uccello è sconosciuta. Qui procediamo da soli, e ci piace di più così. Essere sempre compatiti, essere sempre accompagnati, essere sempre compresi sarebbe intollerabile."
Virginia Woolf


"Gli esseri umani non hanno se non qualche tregua. Un giardino illuminato, uno sguardo, delle voci tra i cespugli e gesti minimi, quotidiani: uscire di casa, comprare dei fiori."
Antonella Anedda


mercoledì 22 agosto 2012

The nearness of you


(Sarah Vaughan)

It's not the pale moon that excites me

That thrills and delights me, oh no
It's just the nearness of you

It isn't your sweet conversation
That brings this sensation, oh no
It's just the nearness of you

When you're in my arms and I feel you so close to me
All my wildest dreams come true

I need no soft lights to enchant me
But if you'll only grant me the right
To hold you ever so tight
And to feel in the night ooh the nearness of you


mercoledì 18 luglio 2012

Lu guarracino





Lu Guarracino che gghìeva pe' mmare
teneva voglia de se 'nsurare.
Se mettette nu bello vestito

de scarde e de spine, pulito pulito.
Cu 'na parrucca tutta ncrifata

de ziarelle mbrasciulate,
cu lu sciabòscuollo e purzine
de ponta angrese fine fine
Cu lì cazune de rezze de funno,

scarpe e cazette de pelle de tunno
e sciammeria e sciammerino
d'aleghe e pile de voje marine,
cu buttune e buttunere
d'uocchi de purpesecce e fere,
fibbie, spata e schiocche 'ndurate
de niro de seccia e fele d'achiata,
'ddoie belle cateniglie
de premmone de cunchiglie,
'nu cappiello aggallunato
de codarini d'aluzze salate.
Tutto pòsema e steratiello

jeva facenno lu sbafantiello
gerava da 'cca e da là 
la 'nnammurata pe se truvà.
.....


Il guarracino che andava per mare
aveva voglia di sposare. 
Si mise un bel vestito
di squame e di spine, pulito pulito.
Con 'na parrucca tutta farciata
 di nastrine arrotolate,
con lo jabot, scollo e polsino
 di punto inglese, fino fino. 
Con i calzoni di reti di fondo,  
scarpe e calze di pelle di tonno
 e mantella e mantellino
di alghe e peli di bue marino, 

con bottoni e bottoniere
di occhi di polipi, seppie e fere,

fibbie, spada e fiocchi dorati
di nero di seppia e fette d'occhiata, 
due belle catene di polmoni di conchiglie,
un cappello gallonato
di codini di alucce salate,
Tutto schizzinoso e ben stirato 
faceva il damerino, girava quà e là
 la fidanzata per trova'. 


La storia della canzone:
 http://www.hitparadeitalia.it/schede/g/guarracino.htm.
Il testo è ricchissimo di invenzioni e di onomatopee, paragonabile alle filastrocche di L. Carroll.

"La Bavosa pisse pisse (sottovoce!)
grasso e tondo  (chiaro chiaro) glielo disse" 

mercoledì 4 luglio 2012

Persone

Tra le cose essenziali che si preparano dentro di noi vi sono gli incontri rinviati. Può trattarsi di luoghi e di uomini, di quadri come di libri. 
(...)  Vi sono persone di cui mi piace sentir parlare, e allora ascolto quanto più è possibile e con tale avidità che si potrebbe quasi pensare che in fondo so di loro più di quanto ne sappiano esse stesse - ma evito di guardare una loro fotografia e mi sottraggo a ogni raffigurazione visiva, come se un divieto particolare e legittimo impedisse di conoscere la loro faccia. 
Vi sono anche persone che mi incontrano per anni sul medesimo percorso, che mi danno motivo di riflettere e mi appaiono come enigmi di cui sono chiamato a trovare la soluzione, e tuttavia io non rivolgo loro la parola, proseguo in silenzio per la mia strada, come esse fanno con me, e tutt'e due ci scambiamo sguardi interrogativi, tutt'e due teniamo le labbra ben chiuse: io penso a quello che sarà il nostro primo colloquio e mi eccito all'idea di tutte le cose inaspettate che scoprirò allora. 
E infine vi sono persone che amo da anni senza che esse possano averne il minimo sospetto, e intanto io divento sempre più vecchio, e ormai deve apparire come un'assurda illusione l'idea che io glielo dica mai, sebbene io viva sempre nell'attesa di questo momento stupendo. Senza questo minuzioso prepararmi al futuro non sarei capace di vivere, e per me, se mi studio attentamente, questi preparativi non sono meno importanti delle improvvise sorprese che arrivano come dal nulla e lasciano senza parola. 

Elias Canetti, Il gioco degli occhi - storia di una vita (1931-1937), Adelphi editori, Milano, 1985.

domenica 1 luglio 2012

Barthes, sapere-insegnare

"Vi è un'età in cui si insegna ciò che si sa; ma poi ne viene un’altra in cui si insegna ciò che non si sa; questo si chiama cercare
Ora è forse l’età di un’altra esperienza; quella di disimparare, di lasciare lavorare l’imprevedibile rimaneggiamento che l’oblio impone….Questa esperienza ha, credo un nome illustre………Sapientia: nessun potere, un po’ di sapere, un po’ di saggezza, e quanto più sapore possibile”. 

Roland Barthes, Lezione inaugurale, Einaudi 

martedì 22 maggio 2012

Allora occorrerà

.......................

Allora occorrerà avvicinarsi, forse salire
là dove il futuro si restringe
alla mensola fitta di vasi
all’aria rovesciata del cortile
al volo senza slargo dell’oca,
con la malinconia del pattinatore notturno che a un tratto conosce
il verso del corpo e del ghiaccio
voltarsi appena,
andare.  (Antonella Anedda)


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sabato 19 maggio 2012

martedì 1 maggio 2012

Mariangela Gualtieri ai cuccioli


Sermone ai cuccioli della mia specie
Cari cuccioli, vi ho guardato a lungo. Ero lì nascosta nel buio e vi guardavo giocare, nascosta nel buio come una carogna, come una spia che studia il nemico, come un ladro che aspetta il momento buono, come un terrorista che guarda a distanza e fa i suoi piani d’innesco. Io vi guardavo ammutolita, intenerita da voi, cari cuccioli della mia specie, e poi anche disgustata da voi che eravate lì inermi a un palmo dal mio naso.
Siete indeboliti cuccioli. Siete spaventati e soli. Siete avidi. Siete sazi. Siete svuotati. Sfiniti siete. Siete vinti.
Io vi guardavo da una quasi nausea, da tutto quel buio: ricordavo un’antica infelicità d’infanzia, un’antica paura. ricordavo bene quell’essere fra gli altri, spersa, sola. La mia paura me la ricordavo, guardando la vostra. Ricordavo bene il mio sguardo, come se lo avessi sempre visto da fuori: sbigottito, quasi non ci credevo d’essere in questo mondo, non me lo spiegavo, il mondo, non mi raccapezzavo. Come precipitata ero, dalle altezza caduta molto giù, molto di lato, nel mondo degli uomini e delle donne. Nel mondo delle case di mattoni. Nel mondo dove si lavora e si mangia e si dorme e si fa la cacca ogni giorno e ogni giorno si fa la pipì tante di quelle volte e si mangia e si dorme e ci si lava la faccia.
Da dentro quello sguardo, chiusa lì dentro nella mia fortezza io guardavo il mondo dei grandi e provavo una grande pietà. Io li sentivo che piangevano dentro. Sentivo che non ce la facevano. Li sentivo gridare dentro. Con muri dentro, con scarafaggi e muffe, dentro. E un giorno, quando ero molto piccola, ho fatto un giuramento, un giuramento infante, senza le parole, ma chiarissimo e sonante: io me li prendo tutti nel petto e li scampo, li porto in salvo.
Ho giurato così, senza dire neanche una di queste parole, ma con tutte queste parole più forti cento volte. Nel mio letto, vicino al grande armadio con lo specchio, fra le sponde altre di legno, con la sorella vicina che tossiva, giuravo forse ogni notte, per quella tosse, per la faccia stanca del mio babbo, e per tutte le facce dei grandi, coi loro segni come di grande pena. Una bambina nel suo letto ha fatto il giuramento, recitato la formula che salva, forse ha vinto sulla morte e sul mondo.
Aspettavo il giorno in cui mi avrebbero detto il grande segreto. Sentivo, lo sapevo, che dietro al loro non dire niente si nascondeva la grande verità. Sentivo, lo sapevo, che loro sapevano tutto quello che io non sapevo. Sentivo che un giorno me lo avrebbero detto e io avrei capito il mondo e non avrei sofferto come loro, perché loro stavano già soffrendo anche per me. Sentivo e aspettavo.
Poi molto piano, molto in ritardo, molto piano, millimetro dopo millimetro, in un lavorio di tic tac e minuti molto piccoli, piano piano, sono passata di là, sono caduta del tutto nel mondo, appiattita, schiacciata al suolo in un lento atterraggio.
Adesso, cari cuccioli, io sono grande. Sono molto grande. Sono quello che mai e poi mai avrei voluto essere: una persona grande. Adesso io sono dei loro. Adesso lontanissima sono dai miei favolosi sette anni, quando ero un genio buono, uscito da poco dalla lampada, e un filosofo ero, ma senza le parole, un grandioso poeta analfabeta, un artista senz’arte.
Adesso da qui, da questo esilio duro, da questo corpo con peso, da questa mente complicata, da questa mente ingombrante, da qui, da questo buio che è tutto il mio, da qui vi guardo, adorandovi. Vi chiedo aiuto. Una parte di me vi supplica, vi implora, vi chiede aiuto e aiuto. Adesso tocca a voi salvarmi, fare il giuramento. Potrete? Ci riuscirete? Mi sentite? Sentite?
Dicono che siete rotti. Siete sazi, dicono. Corrotti. Rovinati siete, come tutto il resto. Anche voi nella lista lunga delle perdite: l’acqua, l’aria, il silenzio, il pudore… Anche voi. Stuprati siete, rotti. Vecchissimi e troppo stanchi per l’infanzia. Scarichi. Vuoti.
Allora adesso imparate. Imparate l’odore dei nemici potenti. Sbranate, cuccioli, le loro mani piene. Scassate le loro tane come galere. Sputare sui loro piatti. incendiate le stanze gonfie di giocattoli, scappate, morsicate, tirate pietre sui televisori, scalciate, spaccate questo micidiale nostro sogno, l’inesauribile bisogno di confort, fateci a pezzi, scancellate noi, puniteci per aver fatto di voi le nostre miniature, per avervi disinnescati, resi innocui, per non avervi ascoltati, nel vostro sommo sapere.
Voi che eravate le porte del regno dei cieli e chi non passava da voi non passava, voi che eravate purissima gioia, voi che eravate noi bloccati nella più grande bellezza, voi che somigliavate ai cuccioli degli altri animali, voi che capivate lo splendore misterioso degli animali, voi che dormivate un sonno perfetto e benedetto, voi che vi svegliavate ridendo, voi che facevate balletti strepitosi. Voi, nostre divintà domestiche.
Nascete ancora, cuccioli. Restate. Siate. Salvate. Giurate. Siate. Siate. Siate.


giovedì 5 aprile 2012

Victor Hugo

Nella casa-museo  di Victor Hugo, in place de Vosges a Parigi, la camera da letto (legno scuro e tappezzeria rossa)  ha lo scrittoio (a sin nella foto) molto alto, perchè Hugo amava scrivere in piedi:
 pare che questa modalità infonda molta più energia alle parole...


sabato 10 marzo 2012

Elio Pagliarani (1927 - 2012)

................................
Ma dobbiamo continuare 
 come se 
 non avesse senso pensare 
 che s’appassisca il mare


(La ballata di Rudi, Oggetti e argomenti per una disperazione)

martedì 28 febbraio 2012

domenica 19 febbraio 2012

Del nuotare

     Era inevitabile e direi fatale che, nuotando sott’acqua in apnea nell’ipnotica fissità dei fondali, io m’imbattessi, dopo Ferito a morte, nella leggenda di Colapesce, che ne è una specie di lontano prototipo. Mito e favola del ragazzo mezzo uomo e mezzo pesce mi arrivavano dalle azzurre profondità del mio Tirreno, e tirrenico più che greco e siculo io sentivo questo antico racconto. Dopo Croce, e Calvino, e Sciascia, che tra i moderni lo raccolsero e lo riscrissero ciascuno a suo modo, venne anche a me il desiderio di riprenderlo e raccontarlo a modo mio. 
L’occasione fu il compleanno di mia figlia che ancora non sapeva leggere e che dunque si trovava nella condizione ideale per ascoltare le favole che le inventavo. Mi stava a sentire con una specie di sognante rapimento, con due occhi d’ambra chiara che pendevano dalle mie labbra e accoglievano come oro colato ogni mia parola, e tutto, ogni minimo particolare, metteva in moto la sua intatta fantasia. Oh, se i miei lettori mi leggessero come lei mi ascoltava! Scrissi questa favola per lei, per farle immaginare la bellezza dello scenario sottomarino, e anche per prepararla – quando sarebbe stata in grado di farlo – alla lettura di Ferito a morte. Mi piaceva farle credere che anche io ero stato un po’ come Colapesce, e che se le mie mani e i miei piedi non erano forniti di membrane per meglio nuotare, le pinne di gomma potevano benissimo sopperire a questa mancanza. 
Volevo che quando fosse stata più grande capisse che se avevo scelto il mare come elemento essenziale del mio libro era perché nel mare avevo trovato in un primo momento la beata regressione dell’infanzia (e una tregua al dolore), il liquido amniotico della mia ispirazione, il richiamo perenne e insostituibile dell’Altrove, del Regno Sconosciuto. E poi, man mano anche lei crescendo avrebbe potuto riconoscere nel mare il luogo della felicità, della “bella giornata” e della ferita che essa nasconde


Raffaele La Capria, Colapesce

Raffaele La Capria Esercizi superficiali. Nuotando in superficie, Mondadori 2012

domenica 5 febbraio 2012

Anedda - Lei è (e non è) mia madre


Antonella Anedda, Salva con nome, Mondadori 2012
Mette in fila i ricordi
loro gridano che non sono mai esistiti.
Mette in fila i nomi
loro battono insieme come cucchiai di legno
Mette in fila i visi e loro a schiera si sfaldano
confondendo le unghie con i suoni.
Parla con l’aria: “Tu non ferisci”, dice,
ma l’aria brucia e rade - a falce - il passato.
1
Nelle sue orecchie il mondo arriva a ondate.
In una il dolore è più ottuso. Nell’altra c’è più aria.
Anche nel sonno sente l’ovatta e le fiamme.
La fronte tocca le ginocchia piegate.
Torna a essere un feto che ignora l’infinito.
 2
Abbandonandosi trova una fessura.
Non resistendo il dolore trova finalmente la vena.
Trasmutando si placa.
I passi nel selciato ora raggiungono la gola.
Stridono come carri sul petto. Odorano di acciaio.
Il timpano traghetta - bianco su nero -
-come formica e pane- un ultimo pensiero.
 
3
Anche cadendo continua a dormire.
La bocca sul pavimento non sente il freddo.
La raccolgono, la voltano.
La nuca non trema, sta come muschio nelle mani.
Il corpo è tutto nero. Dietro ci sono le sfere dei monti, la sbarra dei lecci.
Il cielo le posa una benda di pioggia sulla schiena.
Una foglia gialla è una goccia d’unguento sulla fronte.
Prima di sgorgare il sangue si raccoglie in un catino di osso.
A distanza e indietro. Lei è (e non è) mia madre.

sabato 21 gennaio 2012

Attilio Bertolucci, Al fratello


Un giorno amaro l'infinita cerchia
dei colli
veste di luce declinante,
e già trabocca sulla pianura
un autunno di foglie.

Più freddi ora dispiega i suoi vessilli
d'ombra il tramonto,
un chiaro lume nasce
dove tu dolce manchi
all'antica abitudine serale.



 Attilio BertolucciLe poesie, Garzanti Milano 1998

giovedì 19 gennaio 2012

Risveglio

Per prima cosa al mattino
vedere se la pendola ha tenuto il tempo
se ha fatto presa la colla sul vecchio libro
se è sbocciato un tal fiore:
controlli soddisfacenti
per avviare le ore.

Luciano Erba, L'ipotesi circense, Garzanti, Milano, 1995

sabato 14 gennaio 2012

Kierkegaard, la gioia

«Il giglio e l’uccello, i gioiosi maestri di gioia, sono la gioia stessa perché sono incondizionatamente gioiosi. Colui infatti la cui gioia dipende da determinate condizioni non è la gioia stessa, la sua gioia è nelle condizioni, è condizionata da esse. [...] 
Ma il loro insegnamento di gioia, che di nuovo la loro vita esprime, è con grande brevità il seguente: c’è un oggi che è, sì, un’enfasi infinita cade su questo è. C’è un oggi e non c’è nessuna, proprio nessuna preoccupazione per il domani, o per il giorno seguente. 
Non è leggerezza quella del giglio e dell’uccello, è invece la gioia del silenzio e dell’obbedienza. Perché quando tu taci nel silenzio solenne, quale è in natura, non esiste il domani; e quando tu obbedisci, come obbedisce il creato, non c’è il domani, quel giorno maledetto, l’invenzione della chiacchiera e della disobbedienza. [...] 
Che cos’è la gioia, che cos’è essere gioiosi? È essere davvero presenti a se stessi. Ma l’essere davvero presenti a se stessi è questo “oggi”, è essere oggi, essere davvero oggi. » 

(S. Kierkegaard, Il giglio nel campo e l’uccello nel cielo. Discorsi 1849-1851, a cura di Ettore Rocca, Donzelli, Roma 2011
http://www.donzelli.it/libro/2298