giovedì 21 giugno 2007

Che cosa sono le nuvole?

P.P. Pasolini, Per il cinema, a cura di W. Siti e F. Zabagli, Milano: A. Mondadori, 2001

Che cosa sono le nuvole - scena finale
Una lunga soggettiva, che fa rigirare vertiginosamente terra, cielo e immondezza, dei due corpi che rotolano, urlando di spavento./Finchè l'obiettivo, immobile, punta in alto, contro l'immenso cielo azzurro dove corrono veloci delle bianche nuvole. /Nella faccia spaccata e gonfia di Otello gli occhi luccicano di ardente curiosità, di intrattenibile gioia. /Anche gli occhi di Jago guardano strabiliati e in estasi quello spettacolo mai visto del cielo e del mondo.
"Oh, straziante, meravigliosa bellezza del creato!"


.....
Tutto il mio folle amore
lo soffia il cielo
lo soffia il cielo
così

http://www.pasolini.net/

La canzone di chiusura è cantata da Domenico Modugno;
ascolta LA VERSIONE ORIGINALE

sabato 16 giugno 2007

My favourite things (una canzone)

Raindrops on roses and whiskers on kittens
Bright copper kettles and warm woolen mittens
Brown paper packages tied up with strings
These are a few of my favorite things

Cream colored ponies and crisp apple streudels
Doorbells and sleigh bells and schnitzel with noodles
Wild geese that fly with the moon on their wings
These are a few of my favorite things

Girls in white dresses with blue satin sashes
Snowflakes that stay on my nose and eyelashes
Silver white winters that melt into springs
These are a few of my favorite things

When the dog bites
When the bee stings
When I'm feeling sad
I simply remember my favorite things
And then I don't feel so bad

http://www.youtube.com/watch?v=kfqh8x4Ku3E

mercoledì 13 giugno 2007

Leggere


James Carroll Beckwith (Hannibal 1852-New York 1917), Girl reading

Agota Kristof, L'analfabeta, Bellinzona: Casagrande, 2006

http://www.letturaweb.net/jsp/raccolte/raccolte.jsp

martedì 12 giugno 2007

Saramago, Il viaggio

Josè Saramago, Viaggio in Portogallo, Torino: Einaudi, 1999, trad. Rita Desti.

... il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione.
Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto: "non c'è altro da vedere", sapeva che non era vero. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si è visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l'ombra che non c'era. Bisogna ritornare sui passi già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio, sempre. Il viaggiatore ritorna subito.

www.einaudi.it

sabato 9 giugno 2007

Benjamin, La tecnica dello scrittore in tredici tesi

Walter Benjamin, Strada a senso unico, Torino: Einaudi, PBE, 2006


I. Chi intende procedere alla stesura di un'opera di vasto respiro si dia buon tempo e, al termine della fatica giornaliera, si conceda tutto ciò che non ne pregiudica la continuazione.
II. Parla di quanto hai già scritto, se vuoi, ma non farne lettura finché il lavoro è in corso. Ogni soddisfazione che in tal modo ti procurerai rallenterà il tuo ritmo. Seguendo questa regola, il desiderio crescente di comunicare diverrà alla fine uno stimolo al compimento.
III. Nelle condizioni di lavoro cerca di sottrarti alla mediocrità della vita quotidiana. Una mezza quiete accompagnata da rumori banali è degradante. Invece l'accompagnamento di uno studio pianistico o di uno strepito di voci può rivelarsi non meno significativo del silenzio tangibile della notte. Se questo affina l'orecchio interiore, quello diventa il banco di prova di una dizione la cui pienezza soffoca in sé persino i rumori discordanti.
IV. Evita strumenti di lavoro qualsiasi. Una pedante fedeltà a certi tipi di carta, a penne e inchiostri ti sarà utile. Non lusso, ma dovizia di codesti arnesi è indispensabile.
V. Non lasciarti sfuggire alcun pensiero, e tieni il tuo taccuino come le autorità tengono il registro dei forestieri.
VI. Rendi la tua penna sdegnosa verso l'ispirazione ed essa l'attirerà a sé con la forza del magnete. Quanto più lento sarai nel decidere di mettere per iscritto un'intuizione, tanto più matura essa ti si consegnerà. Il discorso conquista il pensiero, ma la scrittura lo domina.
VII. Non smettere mai di scrivere perché non ti viene più in mente nulla. E' un imperativo dell'onore letterario interrompersi solo quando c'è da rispettare una scadenza (un pasto, un appuntamento) o quando l'opera è terminata.
VIII. Occupa una stasi dell'ispirazione con l'ordinata ricopiatura del già scritto. L'intuizione ne sarà risvegliata.
IX. Nulla dies sine linea: sì, però qualche settimana.
X. Non considerare mai perfetta un'opera che non t'abbia tenuto una volta a tavolino dalla sera fino a giorno fatto.
XI. La conclusione dell'opera non scriverla nel solito ambiente di lavoro. Non ne troveresti il coraggio.
XII. Gradi della composizione: pensiero, stile, scrittura. Il senso della bella copia è che in questa fase l'attenzione va ormai soltanto alla calligrafia. Il pensiero uccide l'ispirazione, lo stile vincola il pensiero, la scrittura ripaga lo stile.
XIII. L'opera è la maschera mortuaria dell'idea.

Centro studi Walter Benjamin: http://www.ominiverdi.com/walterbenjamin/

martedì 5 giugno 2007

Alice disambientata

Gianni Celati, (a cura di) Alice disambientata, Firenze: Le Lettere 2007

Materiali collettivi (su Alice) per un manuale di sopravvivenza, Bologna, 1976/77

Le poesiole per bimbi dell'epoca vittoriana. La letteratura didattica per l'infanzia, che Alice recita ma sbaglia sempre. (...) Queste erano poesiole-regalo ai bambini che obbedivano. Pericolo! attenzione! dovunque pericoli! Dire no. Riambientare i propri corpi sulla negazione e sulla difensiva. Corpi che hanno interiorizzato la disciplina.
La scuola: Sistema per ambientare ciascuno al suo posto, evitare la distribuzione per gruppi di spaesati, per bande sregolate. Sciogliere ogni modo di occupazione collettiva e svagata dello spazio. (...)
La letteratura per l'infanzia serviva a tutto questo, come si vede dalle poesiole didattiche. Sono libri per bambini buoni, contro i bambini anarchici e incontrollabili. Riambientare il bamtino in uno spazio dove, anche se non c'è sorveglianza, lui si sente sorvegliato.

Erano così le fiabe antiche? predicavano le stesse cose? inculcavano lo stesso tipo di timori? Nelle fiabe antiche c'è un dentro e un fuori. (...) La fiaba allora insegna un modello di comportamento anche per le zone dove l'individuo non è protetto dai rapporti sociali di alleanza e di parentela.
Tutto diverso dalla tecnica culturale della letteratura moderna (in particolare ottocentesca) per l'infanzia, che insegna invece ad evitare il fuori, l'estraneità, il pericolo, le contaminazioni: Insegna ad evitare di brutto tutto quello che è disambientamento.

sabato 2 giugno 2007

Al faro


Dalla prefazione di Nadia Fusini a

Virginia Woolf, Al faro, Milano: Feltrinelli, 2003


Il significato non si raggiunge sempre così, come il Faro, a distanza di anni?

Per Virginia la vita è oltre il reale. Ha un’altra unità di tempo e di luogo. Appartiene al possibile, è incorporata all’antecedente. Come la madre è là dall’inizio. Perché nella realtà noi entriamo sempre in ritardo, come in un discorso già da sempre iniziato.

“Sì, certamente, se domani è bello”: il sì materno è la parola che dona e promette il possibile, con quel sì inizia Al Faro (e finisce Ulysses).

Un sì che è imposizione del silenzio, che è splendore che abbaglia. Vive dell’effetto della distanza, per il vuoto che si interpone.

Noi scopriamo con lei che l’occhio non serve a guardare, ma sente. E la sua essenza è la lacrima. La lacrima che acceca, annebbia, confonde, toglie la vista, ma dona la visione.

La dimensione propria del sentire sembrerebbe essere quella della prossimità. In Virginia sperimentiamo invece una dimensione pàtica che nasce in rapporto alla lontananza: sentiamo ciò che non è qui. Il mio prossimo è colui che è là, lontano da me. Prossima, urgente, attuale è solamente l’assenza. E questo significa che la vita sempre ci manca. O noi le manchiamo.

“Dicendole, non si rovinano forse le cose? avrebbe domandato la signora Ramsay. Non siamo tanto più espressivi così? Quell’istante, in ogni caso, sembrava di per sé estremamente fecondo. Scavò un buco nella sabbia e lo ricoprì, come per seppellirci la perfezione del momento. Era una goccia d’argento da cui attingere la luce, per illuminare la tenebra del passato.”