sabato 2 giugno 2007

Al faro


Dalla prefazione di Nadia Fusini a

Virginia Woolf, Al faro, Milano: Feltrinelli, 2003


Il significato non si raggiunge sempre così, come il Faro, a distanza di anni?

Per Virginia la vita è oltre il reale. Ha un’altra unità di tempo e di luogo. Appartiene al possibile, è incorporata all’antecedente. Come la madre è là dall’inizio. Perché nella realtà noi entriamo sempre in ritardo, come in un discorso già da sempre iniziato.

“Sì, certamente, se domani è bello”: il sì materno è la parola che dona e promette il possibile, con quel sì inizia Al Faro (e finisce Ulysses).

Un sì che è imposizione del silenzio, che è splendore che abbaglia. Vive dell’effetto della distanza, per il vuoto che si interpone.

Noi scopriamo con lei che l’occhio non serve a guardare, ma sente. E la sua essenza è la lacrima. La lacrima che acceca, annebbia, confonde, toglie la vista, ma dona la visione.

La dimensione propria del sentire sembrerebbe essere quella della prossimità. In Virginia sperimentiamo invece una dimensione pàtica che nasce in rapporto alla lontananza: sentiamo ciò che non è qui. Il mio prossimo è colui che è là, lontano da me. Prossima, urgente, attuale è solamente l’assenza. E questo significa che la vita sempre ci manca. O noi le manchiamo.

“Dicendole, non si rovinano forse le cose? avrebbe domandato la signora Ramsay. Non siamo tanto più espressivi così? Quell’istante, in ogni caso, sembrava di per sé estremamente fecondo. Scavò un buco nella sabbia e lo ricoprì, come per seppellirci la perfezione del momento. Era una goccia d’argento da cui attingere la luce, per illuminare la tenebra del passato.”