Marguerite Duras, Scrivere, Milano, Feltrinelli 1994, trad. L. Caruso Prato
E’ curioso uno scrittore. E’ una contraddizione e anche un nonsenso. Scrivere è anche non parlare. E’ tacere, è urlare senza rumore. E’ riposante uno scrittore, ascolta di continuo. Non parla molto perché è impossibile parlare a qualcuno di un libro che si è scritto e soprattutto di un libro che si sta scrivendo. E’ impossibile, è il contrario del cinema, del teatro e di altri spettacoli, è il contrario di ogni lettura. E’ la cosa più difficile di tutte, la peggiore. Perché un libro è l’ignoto, è il buio, è chiuso. Il libro avanza, cresce, va nelle direzioni che crediamo di aver esplorato, avanza verso il suo destino e quello dell’autore, annientato dalla sua pubblicazione: il distacco da lui, il libro sognato, come il bambino più piccolo, sempre il più amato.
Un libro aperto è anche la notte.
Non so perché le parole che ho appena detto mi fanno piangere.
Scrivere comunque, nonostante la disperazione. No: con la disperazione. Quale disperazione, non so darle un nome. Scrivere senza imboccare subito la via che porta allo scritto è pur sempre lavorarlo. E tuttavia si deve accettare questo: lavorare lo “scarto” significa tornare indietro verso un altro libro, verso un altro possibile di questo libro.