sabato 27 febbraio 2010
sabato 20 febbraio 2010
Antonella Anedda
Antonella Anedda, Dal balcone del corpo, Mondadori, 2008
da Per un nuovo inverno
nella morte di A.R (Amelia Rosselli)
Se non fosse che questo: giungere a un luogo
esattamente pronunciarne il nome, essere a casa.
Felice inverno adesso che il nuovo inverno è passato
da un inizio per noi ancora senza nome
non diverso dal varco estivo di reti
forse, un cerchio debole di lumi.
Intorno, solo piante
che non avresti fatto in tempo a scansare
acqua soffiata sulle pietre - grandine
che mai sapremo se è arrivata col suono
che faceva sui tetti là nel tuo tempo
nella bianca, umana pulizia dei bagni.
Finora solo passi recisi
che forse ascolti con ardente silenzio
e aria tra gli aranci mossi piano dai vivi.
Vedi qui nulla per la prima volta si perde.
Stamattina hanno battuto la terra
fredda - colma della gioia dell'acqua
ha dimenticato per te
la sbarra della sedia, la nuca rovesciata
il vento del cortile.
Così felice notte ora che di nuovo è notte
e non è vero che il gelo resti
e abbassi piano il pensiero
forse uno scatto invece schiude qualcosa in alto
molto in alto
una nota
oltre il becco oltre gli occhi lucenti di un uccello
una scheggia di collina - quella laggiù
serrata al tetto verde-bronzo della chiesa.
Felice notte a te
per sempre priva di abisso, una steppa dell'anima-sommessa
dove l'ulivo si piega senza suono
Gerusalemme della quiete
della quiete e del tronco che cerchia e incide la morte
che la succhia nel vuoto e nel vuoto la getta
e la macera piano.
Non ho voce, né canto
ma una lingua intrecciata di paglia
una lingua di corda e sale chiuso nel pugno
e fitto in ogni fessura
nel cancello di casa che batte sul tumulo duro dell'alba
dal buio al buio
per chi resta, per chi ruota.
da Per un nuovo inverno
nella morte di A.R (Amelia Rosselli)
Se non fosse che questo: giungere a un luogo
esattamente pronunciarne il nome, essere a casa.
Felice inverno adesso che il nuovo inverno è passato
da un inizio per noi ancora senza nome
non diverso dal varco estivo di reti
forse, un cerchio debole di lumi.
Intorno, solo piante
che non avresti fatto in tempo a scansare
acqua soffiata sulle pietre - grandine
che mai sapremo se è arrivata col suono
che faceva sui tetti là nel tuo tempo
nella bianca, umana pulizia dei bagni.
Finora solo passi recisi
che forse ascolti con ardente silenzio
e aria tra gli aranci mossi piano dai vivi.
Vedi qui nulla per la prima volta si perde.
Stamattina hanno battuto la terra
fredda - colma della gioia dell'acqua
ha dimenticato per te
la sbarra della sedia, la nuca rovesciata
il vento del cortile.
Così felice notte ora che di nuovo è notte
e non è vero che il gelo resti
e abbassi piano il pensiero
forse uno scatto invece schiude qualcosa in alto
molto in alto
una nota
oltre il becco oltre gli occhi lucenti di un uccello
una scheggia di collina - quella laggiù
serrata al tetto verde-bronzo della chiesa.
Felice notte a te
per sempre priva di abisso, una steppa dell'anima-sommessa
dove l'ulivo si piega senza suono
Gerusalemme della quiete
della quiete e del tronco che cerchia e incide la morte
che la succhia nel vuoto e nel vuoto la getta
e la macera piano.
Non ho voce, né canto
ma una lingua intrecciata di paglia
una lingua di corda e sale chiuso nel pugno
e fitto in ogni fessura
nel cancello di casa che batte sul tumulo duro dell'alba
dal buio al buio
per chi resta, per chi ruota.
venerdì 5 febbraio 2010
Tao Tè Ching
Trenta raggi convergono sul mozzo
ma è il vuoto al centro della ruota
che fa muovere il carro.
Per fare i vasi si lavora l'argilla,
ma è dal vuoto interno
che dipende il loro uso.
In una casa s'aprono porte e finestre:
è sempre il vuoto
che la rende abitabile.
Le possibilità che l'essere dà
è il non essere
che le rende utili.
ma è il vuoto al centro della ruota
che fa muovere il carro.
Per fare i vasi si lavora l'argilla,
ma è dal vuoto interno
che dipende il loro uso.
In una casa s'aprono porte e finestre:
è sempre il vuoto
che la rende abitabile.
Le possibilità che l'essere dà
è il non essere
che le rende utili.
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