Francis Ponge, Pioggia, in Il partito preso delle cose,
Torino, Einaudi, 1979, trad. J. Risset.
La pioggia, nel cortile dove la guardo cadere, scende con andature assai diverse.
Al centro è un sipario sottile (o reticolato) discontinuo, una caduta implacabile ma relativamente lenta di gocce probabilmente molto lievi, un precipitare sempiterno senza vigore, una frazione intensa della meteora pura.
A poca distanza dai muri di destra e di sinistra cadono con maggior rumore gocce piú pesanti, individuate. Qui sembrano della grandezza di un chicco di grano, lí di un pisello, altrove quasi di una biglia.
Sui listelli di ferro, sui davanzali delle fìnestre, la pioggia corre orizzontalmente, mentre sulla faccia inferiore degli stessi ostacoli si sospende in rombi convessi. Seguendo l'intera superficie di una tettoia di zinco che lo sguardo sovrasta, cola in strato sottilissimo, marezzato dalle correnti variate a seconda delle impercettibili ondulazioni e sporgenze della copertura. Dalla grondaia attigua dove scorre con la contenzione di un ruscello infossato senza forte pendio, cade di colpo in un filo perfettamente verticale, grossolanamente intrecciato, fino al suolo dove si rompe e rimbalza in aghetti brillanti.
Ogni sua forma ha un andamento particolare; a ognuna corrisponde un rumore particolare. Il tutto vive con intensità come un meccanismo complicato, preciso quanto arrischiato, come un movimento a orologeria la cui molla è il peso di una data massa di vapore in precipitazione.
La suoneria a terra delle reti verticali, il gluglú delle grondaie, i minuscoli colpi di gong, si moltiplicano e risuonano assieme in un concerto senza monotonia, non senza delicatezza.
Quando la molla si è allentata, alcuni ingranaggi continuano a funzionare per un po', sempre piú rallentati, poi tutto il meccanismo si ferma.
Allora, se il sole riappare tutto si cancella rapidamente, evapora il brillante apparecchio: è piovuto.