Carlo Emilio Gadda, Notte di luna,
in L'Adalgisa. Disegni milanesi, Torino, Einaudi, 1963
Un’idea, un’idea non sovviene, alla fatica de’ cantieri, mentre i sibilanti congegni degli atti trasformano in cose le cose e il lavoro è pieno di sudore e di polvere. Poi ori lontanissimi e uno zaffìro, nel cielo: come cigli, a tremare sopra misericorde sguardo. Quello che, se poseremo, ancora vigilerà. I battiti della vita sembra che uno sgomento li travolga come in una corsa precipite. Ci ha detersi la carità della sera; e dove alcuno aspetta, muoviamo: perché nostra ventura abbia corso, e nessuno la impedirà. Perché poi avremo a riposare.
Lucide magnolie specchiavano il lume delle prime gemme tremanti nel cielo: ma le ombre, frammezzo tutte le piante, si facevano nere.
La moltitudine delle piante pareva raccogliersi nell'orazione, siccome del giorno conchiuso doveva dirsi grazie ad Alcuno, a Chi ha disegnato gli eventi, il nero dei monti dentro la infinità buia della notte. Gli alti alberi, immersi più nella notte, pensavano per primi. E gli arbusti, poi, e gli alberi giovani, che ancora sono compagni delle erbe e ne aspirano da presso il malioso profumo: e le erbe folte e i cespi con turgidi fiori e tutti gli steli frammisti dell'arborea semenza riprendevano ancora quel pensiero che i grandi avevano inizialmente proposto.
(...)
Il vento, a folate, accorse dai crinali e dalle gole nere dei monti, ove un fragore è nel fondo. Sciogliendo la sua corsa verso l'aperto, vi respiravano a quando a quando, con un lento respiro, gli abeti: o i faggi dalle radici aggrovigliate. Così dei lontani si sa tutto, ed anche i dolori.