mercoledì 2 maggio 2007

Ipocondria

Franco Arminio, Circo dell'ipocondria, Firenze: Le Lettere, 2006

C’è la luce dei giorni e c’è la luce della notte. Fuori la luce ha un certo modo di essere presente o di essere assente. Nel nostro mondo interno c’è sempre una certa luminosità. Senza questa luminosità interiore non sarebbe possibile girare e vedere il film dei nostri sogni, "il cinema naturale della mente". Fuori le fonti della luce sono chiare. Dentro non sappiamo da dove venga la luce e come si forma, non conosciamo la sua velocità. Possiamo ipotizzare che la nostra sia una luce lenta. Perché deve muoversi nell’opacità degli organi. Il cervello è forse il più trasparente degli organi; un pezzo di cervello (gli occhi) sporge addirittura fuori, è il nostro litorale, il punto di tangenza tra le nostre schiume e la sabbia del mondo.
Vivo in un luogo ventoso e mi sembra che qui l’aria entri dalle orecchie più che altrove. E con l’aria entra anche luce. Forse vivere in un posto ventoso condiziona lo stato di luminosità interiore? Questo stato non ha regole, non ha albe e tramonti ad ore fisse, ha crepuscoli e aurore del tutto personali. Un mio amico dice di esser morto da molto tempo. Pare che in lui se ne sia andata la luce. Aver perso i suoi genitori gli ha svitato la lampadina ed ora lui vive al buio, una condizione molto simile a quella che presumiamo sia la condizione della morte.
La luce può andarsene e può venire. Forse l’innamoramento è una particolare condizione di lucore, una condizione così particolare che ci fa vedere l’altro che non c’è, che non ci sarà mai. Senza questa luce interiore non sarebbero possibili le allucinazioni, non sarebbe possibile la scrittura poetica. Cos’è l’ispirazione se non un inspirare dagli occhi una certa quantità di luce e poi lasciarla fluttuare dentro di noi, magari fino a vedere la morte e l’infinito che abbiamo sullo sfondo, come dice un altro mio amico? Per scrivere non serve l’intelligenza del pensiero ma quella degli occhi. Pensare per immagini dà vita alla farmacopea della parola. A volte le immagini svaniscono. La luce se ne va, non vediamo più niente. Ma poi la luce torna, e torniamo a vagabondare dietro una chimera.

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Ciò che non viene detto ha la vita più forte, perchè ogni dire ed ogni accennare toglie qualcosa all'oggetto, lo intacca, e così lo diminuisce. Così scriveva Robert Walser in un a lettera all'amica Frieda Mermet.

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Sulle montagne dei miei nervi
nevica e tira vento.
Da qui guardo la calma, la pianura
il fiore nero della sepoltura.